Bauscia Cafè

Vedovanza

È accaduto ancora una volta. C’è una sottile linea rossa che unisce il tifo interista, quando si tratta di dover dire addio a un allenatore vincente: la difficoltà nel “lasciarlo andare”. Certo, questo non dovrebbe affatto sorprenderci, dal momento che la nostra storia è costellata da grandi trionfi, intervallati però da periodi anche decisamente lunghi di stagnazione totale, dove il dramma sportivo diventa una costante e la ricerca dell’UomoForte® quasi una ossessione.

È come se l’interista fosse perfettamente cosciente della necessità quasi fisiologica di avere un condottiero alla guida della sua Inter, qualcuno capace di assorbire i sussulti provenienti dall’interno dello spogliatoio così come le continue speculazioni che stampa e tv ci propinano a cadenza regolare.

“Allenare l’Inter è come essere in una lavatrice che fa centrifuga”, disse il buon Giovanni Trapattoni in una intervista del 2014 a Radio Kiss Kiss: io non ricordo – ero ancora abbastanza giovanotto – come fu l’addio del Trap a quella che, soltanto due anni prima, era stata la sua Inter dei Record, una autentica macchina da guerra calcistica, e non ricordo se ci furono vedovanze assortite o se il ritorno di Giuanin alla Juventus fu accolto come qualcosa che sarebbe dovuto necessariamente accadere.

Il suo fu però un quinquennio iniziato sì tra le difficoltà, ma capace di portare nella bacheca nerazzurra, oltre al 13° scudetto, anche una Supercoppa Italiana e una Coppa Uefa; piuttosto stento a credere che i tifosi nerazzurri potessero anche soltanto ipotizzare che, dopo l’addio di Trapattoni nel 1991, ci sarebbero voluti QUATTORDICI ANNI e una sentenza della Commissione di Appello Federale per rivedere l’Inter campione d’Italia. Quattordici anni durante i quali solo le due Coppe Uefa del 93/94 e del 97/98 riuscirono a rendere la bocca meno amara a tutti noi.

L’Amore.

È per questo che, verosimilmente, fu proprio il Mancio a inaugurare la vedovanza nerazzurra in fatto di allenatori. Un vuoto pneumatico di vittorie improvvisamente colmato da una coppa Italia nel 2005, preludio al 14° Scudetto griffato Calciopoli nonché base fondamentale per i due campionati successivi, che renderanno Mancini un semidio agli occhi di noi tifosi, nonostante alcune scelte tattiche discutibili e una discreta collezione di figure di merda europee. Il terrore di sprofondare nuovamente in una spirale di insoddisfazione sportiva fu tale da coinvolgere anche il sottoscritto, che sembrava non poter fare a meno della presenza dello jesino sulla panchina della Beneamata. Nacque addirittura un blog in difesa dell’allenatore marchigiano, a testimonianza di una strenua difesa della sua figura di tecnico, ai limiti dell’idolatria.

L’esperienza del Mancini-bis, tuttavia, ci insegnerà come una minestra riscaldata possa essere molto più deleteria del dolore imposto dalla vedovanza.

Fortuna volle che dopo l’addio di Roberto Mancini approdasse sulla nostra panchina quello che, da lì a poco, sarebbe stato molto più di un allenatore vincente, fino ad elevarsi al rango di divinità, riscrivendo la storia dell’Inter e firmando una stagione talmente ricca di gioie sportive da sembrare, forse, irripetibile. José Mourinho o lo si ama o lo si odia, dicono in molti: la verità è che da quel “ma io non sono pirla” in poi, Mourinho fu tutto quello che un tifoso dell’Inter avrebbe potuto desiderare. La prostituzione intellettuale, le risposte deliziosamente ironiche e piccate al pennivendolo di turno, le accuse al sistema, le manette, gli sfottò verso gli avversari incapaci di batterlo: un autentico parafulmine umano, capace di trasformare un’ottima squadra in una orchestra perfettamente coordinata e sincronizzata, un’entità pronta a immolarsi per il proprio allenatore, dove persino i campionissimi già affermati erano votati alla causa e disponibili ad adattarsi a qualsiasi volontà del mister.

Quando vacillò l’eterosessualità di molti.

L’unicuum forgiato da Mourinho ha lasciato strascichi infiniti nel cuore e nella memoria di noi poveri tifosi, con il dramma del post-Madrid a lacerare definitivamente ogni speranza di poter proseguire il ciclo con chi era stato capace di portare l’Interismo a un livello superiore e, probabilmente, irraggiungibile per chiunque altro. L’elaborazione del lutto fu una sorta di ritorno alla vita mortale, perché chiunque di noi, col portoghese al comando, era convinto di poter diventare calcisticamente invincibile.

La vedovanza estrema, l’incapacità di realizzare che in un mondo dominato dal denaro non c’è spazio per i sentimenti neppure dopo un Triplete. Un trauma che molti, ancora oggi, non sono ancora riusciti a superare.

Ci vorrà un digiuno lungo dieci stagioni per rivedere il tricolore sulla maglia interista, e siamo all’attualità. L’ultima vedovanza – e temo non sarà l’ultima per l’Inter e per noi interisti – è targata Antonio Conte, ed è ancora lì pulsante, viva, quotidianamente presente. Eppure tutti noi sapevamo come l’arrivo del tecnico pugliese fosse sì una garanzia di competitività, ma anche una bomba ad orologeria pronta ad esplodere in qualsiasi momento; avevamo sfiorato il drammone già la scorsa estate, tra Villa Bellini e le mancate garanzie sul mercato, e sfido chiunque a non aver pensato, dopo il tragico cammino in Champions, che sarebbe stato meglio mollarlo lì senza insistere per qualcosa che non avrebbe più avuto ragione d’essere.

Il calcio per fortuna regala percorsi inaspettati anche a chi, tradizionalmente, è abituato a soffrire e a chinare il capo come noi, ed ecco che questa stagione si è trasformata quasi magicamente in una cavalcata magniloquente, dove siamo tornati a riassaporare quella sensazione di pensiero unico nello spogliatoio, il remare tutti in un’unica direzione, dove la presunta talpa juventina è diventata lo scudo dietro al quale ripararsi dalle critiche gratuite, dai rigori del Milan, dai tentativi di rimettere in gioco la Juventus o di minimizzare il percorso grandioso compiuto dai nostri giocatori fino al traguardo finale.

Grazie di tutto, ma anche basta.

Sul carro di Conte sono saliti in tanti, dopo il 19° Scudetto, ma gran parte di questi avevano addirittura giurato di non voler neppure guardare le partite di una squadra guidata da un nemico travestito da nuovo leader. I fatti hanno parlato chiaramente, il resto lo hanno fatto l’abnegazione e la cultura del lavoro di un uomo capace sì di logorare tifosi e proprietà, ma anche di portare risultati concreti e di spezzare un dominio durato nove lunghissimi anni. È perciò una vedovanza inconsueta, quella che stiamo vivendo in questi giorni, legata non soltanto alla mancata possibilità di inaugurare un possibile, nuovo ciclo, sviluppare un percorso tecnico ben avviato, migliorarsi in Europa per consolidare il piazzamento tra le più forti squadre del continente anno dopo anno.

È una vedovanza che per alcuni di noi è stata quasi una liberazione, mentre per altri apre ancora una voragine nera fatta di paure, sconfitte, mancati investimenti, ridimensionamento, società assente. Viene a mancare la figura che aveva saputo accentrare su di se gli sfoghi dei media e degli avversari, preservando lo spogliatoio da qualsiasi perturbazione e conducendolo in porto con l’abilità di chi sa come si fa a vincere, mentre i nomi dei successori sembravano una lunga lista di piccoli incubi pronti a materializzarsi sulla panchina dei Campioni d’Italia.

Sarà Inzaghi ad assumersi la responsabilità di farci superare questo ennesimo lutto, e chiunque venga dopo Conte sa di avere moltissimo da perdere. Ma io credo sia anche arrivato il momento di dire basta alla vedovanza per il tecnico vincente: comprendo quanto sia triste realizzare che ciò che avrebbe potuto essere non sarà, ma vorrei che l’approccio e la modalità di affrontare l’avvicendamento tecnico non fossero un sistematico, eterno, infinito “ah se c’era LVI”.

Conte ha fatto una scelta, e tra l’altro si sta incartando sulla sua stessa superbia, ma non è più affar nostro.

Non servono le cronache di ogni suo passo, né le interviste su quanto sia stato bello vedere esultare gli interisti, se poi la realtà dice altro. Facciamocene una ragione. Non so cosa riuscirà a fare Simone Inzaghi, mentre so perfettamente quello che perdiamo con l’addio del mister leccese. Tuttavia ognuno di noi dovrà rassegnarsi all’evidenza e scegliere se tifare Inter o se tifare chi ha scelto di non esserci più. Io, una volta smaltita l’amarezza, non ho dubbi, a prescindere da come andranno le cose. Mi tengo insieme a voi la frustrazione per ciò che non potrà essere, ma senza renderla deleteria. Metti che accada l’inimmaginabile…
(Spoiler: no, ma almeno ci si incazza senza fascia nera al braccio)

Gli allenatori cambiano. L'Inter resta.Però talvolta ci potrebbero anche girare i coglioni, ecco. twittalo

NicolinoBerti

Coglione per vocazione, interista per osmosi inversa dal 1988 grazie a un incontro con Andy Brehme. Vorrei reincarnarmi in Walter Samuel, ma ho scelto Nicola Berti per la fig...ura da vero Bauscia.

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