Bauscia Cafè

Gli Interisti Selvaggi

Roberto Bagno, Huntstown, Dublino, Febbraio 2020.

Arrivati a casa di Andrei Vuca, Alex propose, magnificandolo, di guardare Roma di Cuaron. La proposta fu rigettata in fretta, per lo più dal sottoscritto. Di qualsiasi Roma si trattasse, ne avevo avuto abbastanza, già al pub. Avevo visto Immobile e Milinkovic strappare, con il tacito consenso di Rocchi, i tre punti alla mia amata Inter. Ecco che consegnando la testa della classifica a quell’abominio incolore e multiforme che non mi piace citare, i biancocelesti avevano calato una mannaia sul mio buon umore. Potete facilmente immaginare quanta voglia avessi di assistere all’opera di Cuaron (reo di aver scelto il bianco ed il nero come stilema del film peraltro). Non importava se la Roma in questione fosse un quartiere di Città del Messico o l’empio teatro delle recenti vicende sportive. Decisi così di cercare conforto impegnandomi nel catechizzare giovani Irlandesi. Userò questa serata per aprire gli occhi a coloro che non conoscono l’immonda natura della squadra di Torino, mi dissi.

Andrei condivideva la sistemazione con altri quattro studenti, il che la rendeva perfetta per le nostre piccole rimpatriate. Dopo due ore Kasim, che era stato costretto ad ascoltare Alex più del dovuto, si era scolato tutto il Wilson. Ero stato io a dargli una mano, e ora spiegavo ad un certo Bao Liu (o forse Bo Hu, un coinquilino di Andrei comunque) quanto il suo essere uno degli 8 milioni e mezzo di abitanti di Nanchino significasse per me. We are Brother Universally United gli dissi, assestandogli una vigorosa pacca sulla spalla. Kanoon invece aveva ben chiaro quanto fossero importanti le sue radici. Una volta l’ho incontrato Nagatomo, a Saijo, mi disse. La abbracciai: 210 presenze non possono essere dimenticate. Poi mi accasciai sull’isola della cucina, pensando al piccolo Samurai.

Due ore dopo mi svegliai in un bagno di sudore, in preda a brividi caldi. Le case irlandesi sono squallide e  infide. Coricarsi ricordando come il piccolo terzino giapponese fosse tra i 50 giocatori con più presenze nella storia dell’Inter aveva aperto le porte del mio inconscio a una serie di rimossi non del tutto dimenticati. Ogni uomo è un isola, ogni uomo quando sogna è solo, e io su quell’isola di quella cucina studentesca ero solo. Non erano sogni quelli che mi affioravano alla mente ma ossessioni.

Le finestre attorno a me erano esplose in un botto sordo, nella stanza si riversava, sospinto dal vento, il nero di una notte senza stelle. Mentre la realtà si liquefaceva attorno a me vedevo comparire creature bibliche e mostruosità dantesche. Improvvisamente la china-ball che illuminava la stanza precipitò sul mio scomodo giaciglio. Timoroso levai lo sguardo. Un movimento di suola la sospingeva prima a destra poi a sinistra in un inutile peregrinare. Un figuro sbilenco, come un corvo, era chino su di essa, accompagnandola in questo moto ondulatorio. Non mi ci volle molto a riconoscerlo: Ricky Maravilla. Proprio lui, il trequartista arrivato 23enne in nerazzurro (poi vice-campione del mondo nel 2014) troneggiava sull’isola di quella cucina Irlandese. Me ne preoccupai? Affatto. Appena riconosciuto mi ricordai anche della sua proverbiale inoffensività. Mi riaccucciai a riposare, spingendo la testa tra le braccia, infastidito. 

A quanto pare non meritavo riposo. Una voce iniziò a tambureggiare da ogni angolo della stanza. Prima premetti gli avambracci contro le orecchie, in quella posizione strana in cui mi trovavo. “Vedete, il passato è passato, ma il 2011, che anno sciagurato. E non per me, per tutto l’universo mondo.” Chi parlava in questo modo, così categorico e catastrofista? Nel mio sonno nerazzurro avrei avuto da ridire, l’ultimo trofeo, la coppa Italia, fu alzata proprio nel 2011, il peggio sarebbe arrivato solo dopo. La voce sentenziava ancora, acquisendo vigore. “Il tempo è importante, e io non ne ho avuto.” Un sospetto mi balenò nella mente. Alzai timoroso lo sguardo, per cercare la fonte di tale cantilena mortifera, e nel caso assestargli quel destro meritato e da me tanto agognato. “73 giorni terribili. Il tempo è necessario, fondamentale ed io non ne ho avuto a Milano. La mia prima esperienza da allenatore, la ricordo. Quanta gioia, quanta beltà nelle giovanili della ****(un ruomore assordante e stridente esplose nella stanza sempre più cupa e tenebrosa, impedendomi di discernere il gorgogliare), li si che si poteva lavorare.” Mi alzai con veemenza. Dove, dove si era nascosto? Avrei voluto brandire un ascia come Jack Torrance e dare la caccia a quel disco rotto. Sussurrando “Gian Piero” invece che “Wendy”. Non ne ebbi la forza. E nemmeno l’ascia.

In una tetra sinfonia una voce più greve, in italiano un sorprendente ma stentato, si unì al coro. “C’era confusione. I procuratori volevano decidere.”. Mi girai, ero ora in piedi al centro della cucina arrancando verso il cassetto contenente i coltelli. “Mica come qui all’Atlanta. Che ordine, e che strutture. E quella maglia rosso-nera, che classe.”

Rinunciai a procurarmi un coltello, d’altra parte non avrei saputo contro chi usarlo, (se non contro il mio stesso apparato uditivo) e portai le mani alle orecchie, ma fu tutto inutile. Gian Piero incalzò: “Perché ti hanno dato tempo, Frank. Mica sono un covo di matti all’Atlanta, come non lo sono all’Atalanta. Ma l’Inter. Che abisso, l’abisso generato dall’abisso”.Caddi in ginocchio. Con le mani alte a proteggermi.

Fortunatamente (o sfortunatamente) le voci si dissolsero in un cupo refrain: “Abisso, Abisso, Abisso, Abisso…”. Mi portai la mano al petto (o quello che per me era ed è ancora il petto, ma per altri era e rimane braccio), per tastare il battito cardiaco. Impazzito. Rimasi fermo per quelli che mi parsero mesi, ma probabilmente erano minuti.

Il buio ed il silenzio paradossalmente mi consolarono. 

Timidamente aprì gli occhi. La cucina sembra di nuovo deserta e silenziosa. La luce della luna filtrava dalle finestre, intonse. L’arrivo Malachy mi testimoniò di essere riuscito a sfuggire all’incubo. 

Dovevo tranquillizzarmi, e quindi parlammo molto.

Parlammo degli ultimi 10 anni, duri per entrambi (Malachy era ed è un tifoso dello United). Lui spese parole al miele per Mourinho, a suo dire senza colpe nella sua esperienza mancuniana. Poi arrivò anche Ella, e entrambi concordammo sul fatto che Coutinho avesse giocato in club molto più gloriosi e amabili del Barcellona. (poco importa se lei intendeva il Liverpool mentre io l’Inter). Discorremmo sulla penitenza riservata al City dalla UEFA. E io raccontai di come proprio il Fair Play Finanziario avesse tarpato le ali alle mie ambizioni da tifoso per quasi un decennio, e di come fosse liberatorio vedere altri farne le spese. Ho amici in Italia che ne parlano come di una scusa per non spendere, dissi.

Ovviamente ridemmo della terza squadra di Milano. La mia risata fu sadica, lo ammetto. E poi quando la mattina stava ormai  per sopraggiungere, ed ero ormai più tranquillo, ed attorno a me si era formato un gruppetto di una decina di adepti intenti a preparare la colazione e la giornata, raccontai di come esista parzialità nella Serie A. Parlai della vergognosa carta stampata, delle trasmissioni orientate e dell’innominabile male che infestava il calcio italiano. 

Ma la luce della mattina splendeva inondando la stanza ed ero tranquillo. Tranquillo come quando è Brozo a gestire il pallone.

Decisi che più tardi mi sarei addormentato sul divano.

 

Nic92

Nato dall'incontro tra l'unico tifoso cagliaritano non isolano e una grande tifosa di Batistuta, fortunosamente incontra l'Inter e se ne innamora. Ha in Julio Cesar il suo spirito guida.

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