Bauscia Cafè

Al-Cholisti anonimi

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Due istantanee:
Io e mio figlio che al gol di Carrasco saltiamo come due molle, gridando e rischiando di svegliare il resto della prole che dorme ignara e beata.
Il dolore quasi fisico, già tutt’uno con la cappa plumbea che ne è seguita, al palo di Juanfran durante i rigori.
Una domanda:
Perché?
Premetto in modo conscio e razionale, che dell’Atletico non me ne frega nulla.
Anzi.
Non dimentico che sono loro che nell’Agosto 2010 hanno provocato un brusco risveglio a tutti noi, interisti ancora sognanti e fluttuanti nella stratosfera dopo la stagione magica. Loro hanno inferto il primo colpo di piccone al nostro Taj Mahal, del quale restano oggi solo nostalgia e rovine sulle quali ricostruire faticosamente (con calma eh, lo ha appena detto Thohir…con calma…dategli quei venti-trent’anni e torniamo in Champions…)
Se anche guardo al lato passionale, poco mi frega pure di Simeone, nuova icona interista che non mi appartiene e del quale ho sempre fatto fatica, limite mio, a digerire in quel tragico 5 Maggio quella voglia di vendetta e di rivalsa verso ex-compagni ed ex-tifosi quando avrebbe potuto dire solo e semplicemente “Lippi sei un gobbo infame e la prossima volta che ti vedo ti do una testata sul naso”.
E spingendomi sino a un discorso tattico-stilistico-edonistico, il calcio del Cholo – del quale apprezzo organizzazione, grinta, spirito di sacrificio, squadra come corpo unico e quasi immanente – non mi piace (anche qui limite mio) perché dista anni luce dal modello olandese con il quale sono cresciuto a pane, salame e Michels.
Perché allora?
Con lucidità demagogica, devo forse ammettere che più che vedere vincere l’Atletico, volevo solo veder perdere il Real.
Già.
Il Real.
Non ne voglio alle nuove generazioni di interisti che non sanno cosa abbia rappresentato il Real per un giovane tifoso nerazzurro a cavallo tra fine anni ‘70 e inizio anni ’80. Io di quegli anni, per l’Inter e per altre faccende di poco conto, porto ancora le cicatrici sulla pelle. Cicatrici di quelle partite rubate o comunque influenzate da arbitri pavidi e intimoriti. Di quei 2-0 bastardi a S.Siro che venivano sempre e comunque ribaltati in un clima surreale di sputi, insulti, caccia all’uomo, biglie in testa, petardi in campo.
Santillana, Sanchez, Juanito, Butraguegno, Stielike, Michel, Chendo, Sanchis… una catena di Satana che ha forgiato a ferro e fuoco due generazioni, figli e padri interisti accomunati dalle lacrime alla fine delle telecronache di Bruno Pizzul o Guido Oddo o non mi ricordo chi dal Bernabeu (e come raramente accade, per una volta il destino si è mostrato galantuomo e in quello stadio maledetto ci ha fatto vivere l’emozione più bella di sempre). Ricordi indelebili: Bini che urla a S.Siro dopo il gol, bello quanto inutile, dell’1-0 nella semifinale di Coppa Campioni, Pasinato sempre azzoppato in modo chirurgico dopo dieci minuti a Madrid, la biglia sulla testa di Bergomi, quel terrificante urlo ‘cabron’ a ogni rimessa di Bordon prima e Zenga poi.
Il Real è Franco, è da sempre la squadra del regime e del potere, la squadra che ‘deve’ vincere sempre e comunque, la ‘Juve d’Europa’, la squadra dei campioni belli e depilati, ammassati alla rinfusa e accuditi dall’allenatore-badante di turno che deve solo starsene in un cantuccio disturbando il meno possibile.
Il Real.
Il Real, lo odio in quanto simbolo di tutto quello che detesto, nello sport come nella vita.
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Ma se ‘l’amore per qualcosa’ non basta a spiegare l’atteggiamento dall’altra sera, nemmeno ‘l’odio per qualcos’altro’ riesce a rendere giustizia a un insieme di stati d’animo.
C’è dell’altro.
E l’altro è forse solo e semplicemente che nel tragico destino dei tifosi dell’Atletico, io, interista da una vita, mi ci ritrovo.
Ritrovo quelle attese infinite di vincere qualcosa d’importante. E il destino, beffardo, bastardo e stronzo, che te le toglie quando sei andato troppo lontano per restare indifferente e troppo vicino per non scottarti per sempre.
Ritrovo quelle lacrime, che a volte sgorgano semplici e naturali, altre volte restano dentro, a inondare e annacquare stati d’animo.
Ritrovo quell’inseguire un sogno, quel ricominciare ogni volta. Quella fierezza di sentirsi diversi da quelli là, chiunque essi siano.
Quelli là che vincono e ammassano trofei, così tanti che poi perdono il conto e inventano nuove frontiere dell’algebra per sommare scudetti, coppe e minchia-pleti .
Ritrovo quello spazio troppo angusto di una città per due squadre, perenne derby, 365 giorni l’anno, allo stadio, dal panettiere, al bar, mai un attimo di tregua, cosa faccamo noi e cosa hanno fatto loro, dio non fare vincere anche quelli là.
Mi ci ritrovo in quei tifosi che assistono anestetizzati a trionfi altrui, l’abitudine al commiserarsi, quasi una vera a propria cultura della sconfitta, bollata forse a ragione come ‘inter-tristismo’, fenomeno dal quale fuggire, per ribellarsi a maledizioni ataviche che non debbono ricadere sulle nuove generazioni.
Quella volontà di chiamarsi fuori, non dateci una squadra competitiva (ndr, desiderio ampiamente esaudito dal 2010 in poi…), ‘non tirateci dentro’ che poi una volta in gioco vogliamo andare fino in fondo, là dove fa veramente male.
Ritrovo le nostre vittorie provvisorie. Effimere e intense ma che ad altro non servono se non ad alimentare rimpianti futuri, falò impetuosi e bellissimi, brevi e intensi, straordinari nella loro inutilità.
Ritrovo il 5 Maggio, la semifinale di Champions con quelli là, Augenthaler a S.Siro dopo la cavalcata di Nicolino a Monaco, la rimonta folle con Aston Villa, il 5-1 a Bari con il Groningen, il recente 3-0 con i Ladri in Coppa Italia, 17 anni ad aspettare uno scudetto, 45 anni una Coppa Campioni (io la chiamo ancora così) che ancora non ci credo tanto è stata fulminea e inaspettata.
E comunque sia, mi ritrovo in quell’allenatore argentino, fiero e cazzuto che non vuole al collo la medaglia del piazzato, che dice che sentire la pressione di cent’anni di storia è quello che cerca, ma poi ammette che perdere due finali è una “tragedia”, per lui e per tutto il popolo colchoneros. Un allenatore dalla capigliatura improbabile e dai dubbi gusti in termini di abbigliamento, faccia da narco-trafficante e immancabile gesto a grattarsi i coglioni, uno che fai fatica a presentare alla futura suocera. Insomma, uno ‘sporco e cattivo’ come nella migliore tradizione nerazzurra.
E come un’eco lontana, vi sento, voi tifosi Atletico, mentre affermate che ‘alt, noi qualche cosa l’abbiamo vinto di recente, Coppa Uefa, Liga, Supercoppa’ (ndr, bastardi, ve lo ripeto ancora) ma non fa nulla, anche noi abbiamo vinto di recente, quanto e più di voi, non è quello il punto, è il destino che ci accumuna, la storia, il DNA, tutte cose che vanno ben oltre gli aridi palmares.
E vi sento pronunciare anche quel “ricominciamo domani, e che vuoi che sia, ne abbiamo passate tante, passeremo anche questa”, lo riconosco, mi è familiare. Quel calcio come epifenomeno infantile di tutta un’esistenza, simbologia da quattro soldi che a volte ci aiuta a tirare avanti.
Tifosi Atletico, qua la mano.
Frega nulla della vostra squadra ma da sabato sera vi sento vicini.
E forse, inconsciamente, da sabato sera siete un po’ più interisti anche voi.
Da nerazzurro, lo siento mucho.

Adriano ‘5th of November’

Adriano 5th of November

Nasce già extra-extraparlamentare. Se un giorno sarà scelto per una missione sulla stazione spaziale in orbita attorno a Marte, si porterà la maglia di Bonimba, una scacchiera, la manovella di un winch e un erogatore. Forse.

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