Calcio, sì, ma con avvertenza preliminare non tanto simpatica:
“Qui siamo tutti milanisti, sai com’è… van Basten, Gullit, Rijkaard…” “Beh, insomma, ma loro hanno preso anche ‘sóle’ clamorose da voi come Bogarde, Reiziger, Kluivert…”
“Ma il calcio italiano noi lo conosciamo bene proprio perché di olandesi il Milan ne ha sempre avuti. E ancora c’è Seedorf, e Stam se n’è andato da poco…se sei dell’Inter insomma, Bergkamp da voi non ha funzionato ed è stato l’unico posto dove ha avuto problemi”. “Bergkamp ha vinto la coppa Uefa quell’anno! Ma come non ha funzionato?!? Porc…”
“Van der Meyde poco e niente…Seedorf da voi è rimasto poco e non ha fatto nulla: non avete un gran feeling con noi”.
“Eccheccazz… ma come niente! I due gol da centottanta metri alla Juve? E poi almeno citatemi Jonk, il mio idolo, maledetti! E Aaron Winter? Dove lo mettete Winter, dannati cannaroli?” “Ah, già, Winter ha giocato in Italia, è vero. Ma non era della Lazio? Non ricordavo che avesse giocato anche nell’Inter”.
Insomma, il calcio era un argomento su cui contare, ma di Inter si poteva parlare davvero poco. Ibra era l’unico argomento che interessasse loro in qualche modo, per via dei trascorsi all’Ajax (qualcuno nominava Chivu parlandone molto bene, e anche su Maxwell c’era molta considerazione, ma dovevi beccare proprio il tifoso dei Lanceri abbastanza coinvolto).
E poi, Wesley Sneijder. Nato a Utrecht, sangue "Ajaced" e centrocampista di puro talento. twittalo“Costruito”, come qui fanno con tutti i centrocampisti, sorreggendo il talento pazzesco con una inossidabile tecnica di base: destro, sinistro, centrocampista interno, di fascia e trequartista secondo l’occorrenza. Questo era il background del nostro nuovo folletto quando sbarcò ad Appiano proveniente dalla sua casa olandese un giorno di fine agosto, esattamente un anno dopo di quello in cui io feci il percorso inverso, da Como a Nimega.
Ero innamorato di lui già da tempo ed è sempre stato una delle mie fisse calcistiche sin dai tempi dell’Ajax. Gli olandesi con cui parlavo di calcio lo erano quanto me: si sorprendevano di come facessi elogi sperticati per uno che giocava nel Real e non era neanche italiano, e secondo me molti di loro pensavano che io fossi un po’ leccaculo, cercando una facile quanto ovvia “captatio benevolentiae”. Quando Sneijder arrivò a Milano, a parte la mia totale esaltazione da interista, improvvisamente tutti cominciarono a parlare dei nerazzurri, tutti chiedevano informazioni, tutti cominciavano a voler sapere cosa faceva Wes in Italia, come stava giocando lui, come giocava la squadra, come andava con i suoi compagni, chi erano (almeno quelli meno conosciuti all’estero), e poi Mourinho, e il campionato, quelli un po’ più addentro iniziarono addirittura a chiedermi di Arnautovic fresco di esperienza al Twente, figurarsi.
I giornali riportavano sempre più trafiletti sull’Inter, i trafiletti spesso diventavano articoli, gli articoli servizi televisivi, e l’Inter fu scelta sempre più spesso insieme al Milan come partita della serie A da trasmettere dalla pay-per-view olandese. Il negozio di articoli di calcio del centro espose la maglia dell’Inter nella sua piccola vetrina, e da allora è sempre stato così: un giorno ci passai davanti, e persino la maglia rossa che tanto fece discutere era indossata dall’unico manichino della vetrina, e sullo sfondo un bel poster gigante di Sneijder in maglia arancione.
E così tutti quelli con cui interagivo, conoscendo la mia passionaccia nerazzurra, a poco a poco vollero sempre più spesso portare il discorso sull’Inter e su Wes, le conversazioni più frequenti sul calcio portarono a conversazioni più frequenti su tutto il resto, e parlare di tutto il resto sfociò con l’avere persone attorno che mi conobbero meglio e più da vicino. Da lì in poi ecco l’essere integrato definitivamente nella rosa della squadra di calcetto, la battuta schietta sugli italiani e la rispostaccia sugli olandesi senza che nessuno avesse paura che l’altro potesse offendersi, come si fa tra amici veri, l’invito a cena a casa che per un olandese è il segno definitivo che da “kennissen”, conoscente, sei diventato un “vriend”, un amico. E evento tanto più raro se il “vriend” invitato a cena a casa non è nato tra i tulipani, perché l’amicizia qui è preziosa come da qualsiasi altra parte, ma è concessa con molta parsimonia, come è giusto che sia.
La storia di Wesley all’Inter è nota, i trionfi di entrambi pure. Quando a luglio del 2010 mi presentai nel pub per vedere la finale del mondiale, tutti già seduti con le loro maglie arancioni, i miei amici mi chiamarono per farmi cenno che mi avevano tenuto il posto, e mentre mi avvicinavo alla sedia partì un applauso e un coro: “Wes-ley Wes-ley Sneijder!”, un auspicio lanciato attraverso il locale: “Kampioen van Europa en misschien wereldkampioen vanavond!”, e purtroppo per loro quella sera non diventò campione del mondo per pochissimo, se solo Robben avesse insaccato quel suo assist meraviglioso. E poi tante pacche sulle spalle, e una birra offerta al volo da uno mai visto prima e un sacco di “Mooi shirtje, man! De beste!”, “maglietta stupenda, amico, la migliore!”
Ed io, straniero in terra straniera, per la prima volta in due anni mi sentivo davvero parte di qualcosa e non ospite o intruso: e tutto per aver indossato in mezzo a un mare arancione una maglietta nerazzurra col numero 10 sulla schiena e il nome Sneijder sulle spalle. Perché quel piccolo olandese ci aveva fatto vincere insieme ai suoi compagni una coppa straordinaria, ma che in questo Paese aveva un solo nome e un solo cognome inciso sull’argento sfavillante del trofeo stretto tra le mani dei nostri ragazzi in quella indimenticabile notte madrilena.
Ciao Wes, “doei”, come dite voi qua. Tu non lo sai e non lo saprai probabilmente mai, ma io ti devo un bel po’ di cose. E no, l’assist di Madrid a Milito non c’entra nulla.
Bedankt voor alles, man.