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Ferguson contro De Canio – vol.2

segue da Ferguson contro De Canio – vol.1 

Consideriamo più approfonditamente, ora, l’esempio di Klopp cui ho accennato nella prima parte: nel 2008, il tecnico tedesco ha preso in mano un gruppo pressoché privo di buone individualità (della formidabile squadra che conosciamo erano presenti soltanto Weidenfeller, Subotic, Kehl e Blaszczykowski, oltre ai giovani Hummels e Sahin che cominciavano a ritagliarsi un ruolo in prima squadra) e reduce da un deludente tredicesimo posto in Bundesliga; il tutto, con esigue risorse finanziarie a disposizione. Klopp, qui, ha avuto il suo Chievo.
Nei due anni successivi, implementando la propria eccezionale organizzazione di gioco e inserendovi progressivamente elementi del vivaio (Schmelzer, Götze), giovani provenienti dalla seconda divisione (Bender, Großkreutz) e anche felici intuizioni di mercato (Barrios, Piszczek, Kagawa, Lewandowski, all’epoca tutti semisconosciuti o quasi, pagati in totale circa otto milioni di euro), il tecnico tedesco è riuscito a vincere il suo primo campionato, distaccando di 7 punti il Bayer Leverkusen e di 10 la superpotenza Bayern Monaco. Il resto, poi, lo conosciamo bene. Riuscite a pensare che senza la guida di Klopp tutto ciò sarebbe stato possibile?
Ha ragione Cannavaro quando afferma che gli allenatori contano il «15 o 20% al massimo[1]» ?

Va detto che, comunque, l’esempio di Klopp è sicuramente molto estremo: la qualità del suo lavoro è assoluta, e non è certo facilmente replicabile. Ci sono però moltissime altre vie di mezzo che corroborano la tesi della priorità dell’allenatore, più o meno intermedie: un caso di grande lavoro tecnico che sta emergendo ultimamente – o meglio, che è emerso nell’ultimo biennio – è, senza dubbio, quello dell’Atletico Madrid di Diego Simeone. Pur non vantando la spettacolarità del gioco del Borussia, il Cholo ha ottenuto risultati strabilianti – un’Europa League, una Supercoppa Europea, una Supercoppa Spagnola, una Copa del Rey e l’attuale primo posto nella Liga -, assorbendo inoltre senza problemi la cessione di un fenomeno come Falcao. L’esplosione di Diego Costa, anzi, ha contribuito a far aumentare ulteriormente il rendimento della squadra, fino a permettergli di competere alla pari con le supercorazzate spagnole. Personalmente, considero l’Atletico la vera mina vagante di questa Champions League: mi risulta difficile immaginare questa squadra eliminata nel doppio confronto, se non ai rigori.
Prima dell’ingaggio di Simeone, a dicembre 2011, i Colchoneros occupavano il decimo posto nella Liga, con 19 punti conquistati in 15 partite; in questi due anni, pur disponendo di una rosa né qualitativamente né quantitativamente eccelsa, in cui i soli Koke, Villa, Diego Costa e Turan (oltre al portiere Courtois) sono giocatori di primo livello, il nostro mai abbastanza compianto ex ha saputo creare un collettivo straordinario, raro esempio di concentrazione e coesione: i giocatori sembrano quasi saldati tra loro in un unico blocco, tanto che vedendoli giocare ho spesso l’impressione che formino una sorta di agglomerato semi-liqueforme che si aggira compatto per il campo, uno strano mostro colloso e anche piuttosto inquietante, dotato di una specie di giustiziere-aratro là davanti che sembra aver venduto l’anima al diavolo.

Una via di mezzo tra un becchino e Steven Seagal. Mentre interpreta la parte di un becchino
Una via di mezzo tra un becchino e Steven Seagal. Mentre interpreta la parte di un becchino

Per restare in casa “nostra”, invece, si possono citare il lavoro di Conte alla Juventus, quello di Montella alla Fiorentina e quello di Garcia alla Roma. Tutti e tre questi tecnici hanno preso il comando di squadre che venivano da stagioni disastrose sotto ogni punto di vista, con giocatori da ricostruire e un lavoro tattico da cominciare da zero. E’ stato prima di tutto rivitalizzando l’ambiente con la propria personalità, imponendo precise esigenze in sede di mercato e fornendo alle loro squadre una brillante organizzazione di gioco che questi allenatori hanno potuto ottenere ottimi (e financo eccezionali, in alcuni casi) risultati. Senza il loro ingaggio, difficilmente tutto ciò sarebbe potuto accadere; altrimenti, potremmo sempre raccontarci che la Juve sarebbe prima anche con Del Neri, che la Roma avrebbe fatto segnare il record di vittorie ad inizio campionato con Luis Enrique e che la Fiorentina avrebbe sfoderato una delle migliori proposte tecniche del campionato 2012/2013 con Delio Rossi.

Ecco dunque che le condiciones sine quibis non per costruire una squadra vincente sono l’organizzazione di gioco, la gestione del gruppo e le indicazioni per il mercato fornite dall’allenatore, che rappresentano la base su cui impostare il futuro e il riferimento fondamentale cui tutte le scelte dell’area tecnica della società dovranno essere orientate. E’ in questo senso che l’allenatore viene prima della rosa a sua disposizione, e che è più importante di essa. La scelta del tecnico, quindi, rappresenta la mossa principale quando si vuol ricostruire una squadra, o quando si è deciso di puntare ad obiettivi ambiziosi: è di gran lunga l’aspetto più importante e prioritario da considerare in sede di gestione, molto più decisivo anche di due o tre giocatori di qualità.

I motivi di ciò, come detto, sono molteplici: innanzitutto, perché in uno sport come il calcio la tattica e l’organizzazione occupano un ruolo tale da poter prevalere, teoricamente, su qualsiasi altro aspetto. Banalmente, un allenatore che – a parità di mezzi a disposizione – riesce a dominare tatticamente il suo avversario ha molte più possibilità di vincere. Questo, però, vale anche quando i mezzi a disposizione non sono gli stessi: citando il pluriosannato Klopp,

«prima di studiarlo (Sacchi, ndr) pensavamo che se gli altri erano più forti, allora avremmo perso: poi abbiamo capito che con la tattica puoi battere chiunque»[2]

Ovviamente, qui “tattica” non è da intendersi come bacchetta magica: è chiaro che, aldilà di qualsiasi strategia approntabile, Castel di Sangro-Barcellona si concluderà molto probabilmente con una vittoria dei catalani. Ciò che Klopp intende è un lavoro tattico, che si articola in un orizzonte temporale di lungo termine, e che si può combinare con le singole e variabili disposizioni che riguardano una particolare partita. Un progetto tecnico di altissimo livello può trasformare una squadra di metà classifica in una finalista di Champions League, e (come abbiamo visto) senza bisogno di interventi folli sul mercato.

Il giorno dopo la spettacolare vittoria per 4-1 nell’andata della semifinale della scorsa Champions League contro il Real Madrid, proprio Sacchi scrisse queste parole sulle Gazzetta:

“Il Borussia spende meno delle nostre piccole, non aveva giocatori celebri (i famosi top player) però è arrivata in semifinale giocando un calcio sontuoso, generoso, collettivo, bello, divertente e vincente. Un gruppo che si esalta nell’interpretazione del calcio totale nonostante una qualità tecnica individuale non elevata. Lavoro, idee, gioco, organizzazione, innovazione e rinnovamento sono i presupposti fondamentali per spendere poco, avere risultati eclatanti e far crescere i vari Lewandowski, Reus e Goetze del futuro. Però questo sarà di difficile comprensione nel nostro paese dove si è quasi sempre cercato la vittoria disconoscendo i valori sopracitati e puntando tutto o quasi su gli acquisti roboanti (top player) e i debiti. Purtroppo il gioco non si compra, si crea prima di tutto con le idee, il lavoro e l’impegno, poi con giocatori funzionali al progetto tecnico e professionali, indi se hanno anche talento meglio. Ma questo viene dopo[3]

Insomma, in breve: una formica non può battere il nerboruto Golia, ma la mezzasega Davide, se ben preparata e capace di inventarsi qualche mossa brillante, può farlo. Con rivali di un livello più simile al suo, poi, Davide potrà sfruttare la supremazia tattica acquisita e vincere agevolmente il confronto, magari sferrando le sue mazzate con leggiadria e offrendo anche uno spettacolo godibile.
Differentemente, se il nostro Davide si presentasse allo scontro povero di idee e decidesse di affrontare il suo gigantesco avversario semplicemente incrociando le braccia a protezione della testa e correndo come un leprotto, finirebbe probabilmente maciullato; con la stessa discutibile tattica, oltretutto, rischierebbe di uscire sconfitto anche nel confronto con avversari dalla forza simile alla sua.

Il lavoro dell’allenatore, comunque sia, non si esaurisce nella preparazione tecnico-tattica della sua squadra. Tecnici di grande personalità possono infatti arrivare a influenzare ogni aspetto della società, plasmando un ambiente generale di lavoro perfettamente funzionale alle proprie esigenze. Gli aneddoti a riguardo si sprecano: a tal proposito, difficile non parlare di Mourinho (imperdonabile da parte mia non averlo ancora citato) e del suo famoso primo giorno alla Pinetina.

Arrivato al centro di allenamento, Josè chiede ai responsabili dove si trovi il suo ufficio.

– Ufficio? Quale ufficio? – gli rispondono loro.

– Mancini non aveva ufficio? – chiede allora il portoghese.

– No, non ce l’aveva – rispondono.

– Bene – afferma lui, leggermente contrariato. – Allora, fate ufficio.

(la richiesta fu esaudita pochissimi giorni dopo: è proprio da quell’ufficio che Benitez, due anni più tardi, chiederà che le foto del Vate vengano rimosse)

Successivamente, Mourinho va ad esaminare l’erba del campo di allenamento. Ci cammina, si siede, la scruta, la tocca, la misura, forse ne assaggia anche un po’. Terminata l’analisi, il verdetto è negativo: troppo alta. Josè allora fa chiamare i due giardinieri per parlare con loro. Li prende sotto braccio, gli sorride con aria gaudiosa e poi pronuncia parole incoraggianti:

– Complimenti, bel lavoro. Faremo grandi cose insieme!

Il giorno dopo, erano entrambi disoccupati.

Anche su Brian Clough si possono raccontare storie a non finire. Divenuto allenatore del Derby County, modesta squadra militante nella seconda divisione inglese, Brian cacciò undici giocatori (tenendone solo quattro: Hector, Durban, Webster e Boulton), la segretaria, il custode del campo, il capo degli osservatori e anche le due addette al thè, beccate a sghignazzare dopo una sconfitta[4].
Ora, chiaramente, questo non significa che il segreto per ottenere il successo sia il compulsivo licenziamento di poveri disgraziati; ciò che esempi del genere mostrano, però, è che l’influenza dell’allenatore può essere davvero notevole, e che il suo non è un compito che si esaurisce nell’intervenire sulla squadra in modo asettico, come se quest’ultima fosse un’automobile e lui un meccanico che ne ripara o sostituisce i pezzi.
Il paragone appena stilato mi fa venire in mente una frase pronunciata da Del Neri nella sua ultima conferenza stampa da allenatore della Juventus, quando cercava di difendere il suo operato dalle critiche di giornalisti e tifosi. Il povero Gigi era ormai praticamente stato esonerato, e con molta dignità (ma anche con molta frustrazione), a un certo punto, disse

“Il mestiere non me lo insegna nessuno”[5]

Quella parola, in particolare, mi colpì: mestiere. Come se, nel calcio moderno, quello dell’allenatore fosse un lavoro paragonabile, chessò, a quello di un carpentiere (certo ugualmente rispettabile, s’intende): un mestiere, appunto, appreso esclusivamente tramite l’esperienza e la ripetizione di compiti relativamente standardizzati tra loro. A quanto pare, per Gigi i giocatori sono equiparabili a lastre di calcestruzzo, o a pannelli di legno: esseri inanimati, dalle caratteristiche uniformi, facilmente modellabili, sui quali è necessario eseguire solo un certo numero di operazioni. Terminato il lavoro, poi, si chiude il cantiere, e la mattina dopo si ricomincia daccapo.

Giunti a questo punto, dopo la carpenteria di Del Neri e il suo magico centravanti di compensato, posso dichiarare concluso il nostro percorso, lungo e denso di avvenimenti. Finalmente, siamo autorizzati a mettere da parte il buon De Canio, Ferguson, il suo Chievo dei miracoli, Klopp, Sacchi, Van Gaal (e, perché no, anche quel coglione di Davide) e rituffarci nel magico mondo reale, dove ci aspetta il 3-5-2 di Mazzarri.

Fine

Note:

[1] Cannavaro sta con Del Piero: «Capello? Conta al 20 per cento»ilgiornale.it, 3 giugno 2005
Qui Cannavaro rispolvera, tra l’altro, un altro adagio molto caro al nostro Collovati, ossia il celeberrimo “in campo ci vanno i giocatori

[2] Jurgen Klopp, ovvero del perché tiferò Borussia, francescocosta.net, 21 maggio 2013

[3] Questo Dortmund ci dice che il gioco non si compra, gazzetta.it, 26 aprile 2013

[4] History of Derby County F.C. (1967–present), en.wikipedia.org

[5] Del Neri: «Pochi possono insegnarmi il mestiere»tuttosport.com, 14 maggio 2011

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