Bauscia Cafè

Il risarcimento c’è

Qualcuno doveva aver benedetto il signor M., perché senza che avesse fatto nulla di particolare per meritarlo, una mattina la sorte cominciò curiosamente ad arridergli. 

Uscito dal suo palazzo e imboccato il vicolo che portava alla fermata del tram, inciampò in una delle numerose buche presenti sull’asfalto, procurandosi una fastidiosa storta alla caviglia. M. fu costretto a fermarsi: l’articolazione iniziò subito a gonfiare.

Casualmente, proprio in quel momento passava di lì un noto avvocato civilista a cui la scena non sfuggì: questi consegnò subito a M. la modulistica per chiedere il rimborso dei danni al comune. “Quali danni?”, chiese M. “Come quali danni? Questi!”, rispose prontamente l’avvocato, tirando fuori referti del pronto soccorso, scontrini di costosi medicinali acquistati e una serie di dichiarazioni di testimoni che confermavano l’avvenuto infortunio, oltre a un’accurata perizia del danno subito e persino diverse fotografie della buca, scattate anche con un certo gusto.

Frastornato, M. raccolse quanto consegnatogli dall’avvocato, che lo salutò dicendo “a norma di legge, la negligenza del comune c’è”, e gli assicurò che il rimborso gli sarebbe stato accreditato entro la fine della mattinata. 

Pochi minuti dopo, un altro uomo inciampò nella stessa buca, ma nonostante la dinamica fosse del tutto identica, nessuna irregolarità venne ravvisata.

Una volta arrivato in ufficio, date le – seppur leggere – difficoltà a camminare, M. evitò il più a lungo possibile di lasciare la sua postazione; quando però avvertì l’impellente esigenza di andare in bagno, fu costretto ad alzarsi. Giunto in prossimità della toilette, si distrasse un attimo per controllare qualcosa sul telefono, non accorgendosi di un cavo che, dalla parete, penzolava fino al pavimento. La punta del piede infortunato incappò proprio sul cavo, e subito M., imprecando, sentì una fitta di dolore pungerlo alla caviglia. 

Neanche il tempo di appoggiarsi al muro per attendere che la fitta si attenuasse che il suo telefono squillò. Era un altro avvocato, collega di quello che aveva conosciuto poco prima, che lo invitò a recarsi immediatamente dal principale per esigere la presentazione di una denuncia all’Inail per quanto accaduto. “Denuncia per cosa?” chiese M. “Come per cosa? A causa di un ambiente lavorativo notevolmente pericoloso, la sua prognosi per l’infortunio al piede è appena aumentata di una settimana. Lei, caro mio, ha diritto a un risarcimento”. “Un altro?”, domandò M., mentre una sinistra aria di cupidigia si dipingeva sul suo volto. “E di quanto?” 

“Bei soldi, caro mio. Bei soldi!”.

M. fece quanto indicato, e il suo principale, uomo solitamente poco avvezzo ad andare incontro alle rivendicazioni dei propri dipendenti, non ebbe modo di obiettare alcunché, soprattutto di fronte alla registrazione delle telecamere di videosorveglianza prontamente fornita dall’avvocato. Il filmato mostrava il momento dell’inciampo da varie angolature, con tanto di replay in slow-motion in cui si notava chiaramente come il cavo avesse ostacolato l’incedere di M., oltre a un primo piano dell’infortunato mentre il suo volto si contraeva per il dolore. “A norma di legge, la negligenza del datore di lavoro c’è”, affermò M., usando le parole che l’avvocato gli aveva suggerito.

Poco dopo la trionfale uscita dall’ufficio del principale, una vibrazione del telefono gli notificò un bonifico in entrata con causale “risarcimento danni comune”: fu la conferma che qualcosa di curioso stava effettivamente accadendo intorno a lui. Qualcosa di cui, senza dubbio, poteva approfittare.

Uscito anticipatamente dall’ufficio grazie all’infortunio, scese in strada e cominciò a passeggiare, facilitato dalla riduzione del gonfiore alla caviglia. Di colpo, iniziò a vedere in tutto ciò che lo circondava uno sterminato insieme di possibilità: per tirare su un polverone era sufficiente, chessò, un tombino rimasto aperto, un albero caduto sulla strada, un semaforo malfunzionante; ma bastava anche un vicino troppo chiassoso, una tegola scivolata giù da un tetto e, perché no, un cassiere che si dimenticava di consegnare lo scontrino.

Assorto in questi pensieri, M. attraversò la strada senza prima controllare che fosse sgombra. Uno stridente rumore di freni lo riportò di colpo alla realtà: a pochi centimetri da lui, un’auto aveva inchiodato per evitare di investirlo. Il pingue signor M. si voltò, trasalendo per il rischio corso, mentre l’automobilista, infuriato, si sporse dal finestrino e urlò

“che cazzo fai, ciccione di merda!”

Subito, un pool di avvocati si precipitò sul posto. Il reato di diffamazione per body shaming venne notificato senza indugio all’automobilista: un giudice di pace, che aveva seguito l’accaduto dalla finestra del suo studio, condannò l’offendente al risarcimento dei danni morali subiti dal signor M. e a sei mesi di reclusione. Alle proteste dell’automobilista, avvocati e giudice risposero citando l’articolo 595 del codice penale, sentenziando poi che “a norma di legge, l’offesa c’è”.

Dopo quest’ultimo avvenimento, M. aveva ormai compreso come funzionasse la cosa. Si sbottonò la giacca, mettendo in mostra il generoso ventre, e prese a

  • lanciarsi in mezzo alla strada a tutti gli incroci;
  • camminare lentamente in strette viuzze ostruendo il passaggio altrui;
  • tagliare improvvisamente la strada a chi gli camminava a fianco, di modo che fosse impossibile evitare di finirgli addosso,

fino ad arrivare a esigere un posto da titolare come centravanti nella squadra di calcetto dei colleghi, per poi piazzarsi fisso nell’area di rigore avversaria e non tornare mai indietro a dare una mano. Grazie a queste azioni, arrivò a totalizzare quasi un centinaio di affermazioni lesive del suo aspetto fisico, alle quali si aggiunse la non trascurabile quantità di offese omofobe ricevute quando gli venne l’idea di sostituire i mocassini che portava ai piedi con un paio di provocanti décolleté dotate di tacchi a spillo. 

Qualche ora dopo, il suo telefono prese a vibrare in continuazione: l’app della banca segnalava l’arrivo di bonifici in entrata senza sosta, e M. si rese conto di aver messo insieme, nel giro di poche ore, un discreto capitale. 

Rientrato a casa, accese la tv vide un servizio al telegiornale che parlava dei festeggiamenti per il martedì grasso: senza perdere tempo, ormai in piena trance agonistica, M. convocò i suoi avvocati per intentare causa alla presentatrice, rea di aver utilizzato una terminologia offensiva che doveva al più presto essere sostituita con “martedì col metabolismo lento” o al massimo “con le ossa grosse”, precisando che comunque si trattava di un martedì che ha accettato il suo corpo e che merita rispetto perché mostra le foto della sua cellulite su Instagram.

Inutile dire che anche in questo caso, a norma di legge, l’offesa ci fosse.

In breve, il caso di M. assunse risonanza nazionale. A chi osservava che era un po’ strano che a qualsiasi mossa di questo signore corrispondesse un risarcimento, i sostenitori della sua battaglia rispondevano che i provvedimenti erano tutti legittimi, che M. se li meritava perché li propiziava col suo atteggiamento propositivo e che quelli che lo contestavano erano invidiosi del suo successo. Addirittura, da un certo punto in poi M. iniziò ad incontrare persone che, per insondabili motivi, gli consegnavano di propria spontanea volontà ricchissimi doni: celebre fu il caso di un signore che dal tabaccaio vinse una cifra considerevole con un gratta e vinci ma, appena scorto M. accanto a sé, gli consegnò il biglietto con uno spasmo incontrollabile del braccio, sorprendendosi egli stesso del gesto, quasi fosse avulso dalla propria volontà.

La cosa andò avanti per diversi mesi, durante i quali l’impressionante mole di risarcimenti e doni vari non accennò ad interrompersi. Ormai, a M. bastava fare un passo perché dei solerti avvocati e giudici ravvisassero un’offesa nei suoi confronti, o perché qualche misterioso benefattore si facesse avanti, e tutto ciò ebbe gravi ripercussioni sulla sua psiche. Tronfio per le cause vinte, costantemente premiato dai cavilli, iniziò a peccare di superbia, e il suo distacco dalla realtà cominciò a farsi evidente: erano sempre più numerose le occasioni in cui pontificava ergendosi a modello, elogiando il proprio duro lavoro e la qualità delle sue gesta, finendo per non accorgersi più di ciò che nella sua vita non andava per il verso giusto. Ormai, M. si era adagiato sui suoi presenti e indennizzi, grazie ai quali si concedeva uno stile di vita ben superiore alle proprie possibilità; oltretutto, sapendo di avere garantito un così cospicuo salvagente si impigrì notevolmente, tanto che le sue capacità cominciarono ad atrofizzarsi, ed M. finì via via per dimenticare quanto di buono era capace di fare. 

Ormai, la qualità delle sue giornate dipendeva dalla frequenza con la quale, a norma di legge, “ci fosse” una qualche violazione dei regolamenti a suo danno: risarcimenti e donazioni continuavano ad arrivare, ma ogni tanto capitava che gli inciampi non venissero ravvisati, o che nessuno gli si prostrasse davanti implorandolo di accettare ciò che gli portava in dote. I giorni in cui le cose andavano così erano pessimi, privi di soddisfazioni, grigi come quelli precedenti all’inizio di questa storia.

Nonostante in molti ritenessero impossibile che quella storia potesse andare avanti ancora a lungo, il misterioso flusso positivo di M. non voleva saperne di interrompersi. La promozione tanto attesa sul lavoro, quella per cui lavorava da un anno e che sentiva ormai di avere in tasca, continuava a non arrivare, mentre altri colleghi avanzavano ben più rapidamente, superandolo senza fatica nelle gerarchie; questo però non sembrava preoccuparlo particolarmente, anzi. Arrivato in prossimità dei mesi estivi, decise di concedersi una splendida vacanza di sei settimane in un paradiso tropicale, dove ebbe modo di rilassarsi in riva al mare e anche di sbattere un piede contro un Rolex nascosto sotto la sabbia (il che gli assicurò l’inevitabile indennizzo da parte dello stabilimento e anche la possibilità di tenere per sé l’orologio).

Terminate le ferie, M. si ripresentò in città abbronzato e riposato, ancor più pingue di quando era partito, complici le copiose aragoste che si era scofanato durante il periodo di villeggiatura. Il giorno del rientro a lavoro, alzatosi di buon mattino, si vestì di tutto punto, si diede un colpo di spazzola e si preparò al primo tuffo stagionale nella buca del vicolo sotto casa.

Giunto in prossimità dell’incavo, esitò un attimo, come se avesse perso un po’ la naturalezza del gesto, ma poi prese coraggio e si lanciò. Il piede affondò nella buca, la caviglia tremò leggermente, e già M. iniziò a pregustare quella che era ormai diventata la sua sinfonia mattutina, la voce di un avvocato che ravvisava l’irregolarità commessa dal comune. Con sua sorpresa, però, non udì niente. M. riprovò un’altra volta, poi un’altra ancora, ma di avvocati nemmeno l’ombra. Avvertendo una bruciante frustrazione che montava, incapace di comprendere cosa stesse succedendo, iniziò a saltare nella buca con scatti inconsulti, finendo per mettere davvero male il piede e per cadere sull’asfalto di faccia, procurandosi diverse abrasioni sul volto.

Mentre era ancora per terra, frastornato per la botta, la sua attenzione venne catturata, per qualche motivo, da un signore che usciva dal portone del palazzo di fronte. Appena imboccato il vicolo, il signore posò inavvertitamente il piede su un sassolino che stava sul pavimento, scivolando.

Subito, un avvocato spuntò dal nulla e gridò

la negligenza c’è!“.

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