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Il DNA calcistico

Il concetto di DNA sportivo è ormai entrato nel vocabolario calcistico, tanto da essere citato sempre più spesso sia dalla stampa che da allenatori e giocatori. In questo parallelismo tra sport e biologia, le varie caratteristiche delle società calcistiche vengono equiparate a una sorta di corredo genetico, in grado di distinguere profondamente una squadra da un’altra. Ma che cos’è, nello specifico, questo famigerato DNA calcistico? È solo una metafora malriuscita, o è invece un concetto che può avere una propria utilità e merita di essere approfondito?

DNA calcistico – una definizione

Generalmente, quando si parla di DNA di una società calcistica, si intende l’insieme di due tipi di caratteristiche:

  1. le caratteristiche “fondanti”, che comprendono, oltre a nome e colori sociali, gli ideali costitutivi, la città/regione di appartenenza, la classe o le classi sociali (originariamente) rappresentate, l’anno e le vicende che hanno portato alla fondazione e via dicendo,
  2. e le caratteristiche “acquisite”, ovvero lo storico delle vittorie e delle sconfitte, la rilevanza a livello politico, l’identificazione con determinate figure-chiave (calciatori, allenatori e/o dirigenti) e, in alcuni casi, un certo stile di gioco, che negli anni può arrivare a consolidarsi fino a diventare un elemento distintivo.

Alla luce di questa classificazione, va da sé che già le caratteristiche del primo tipo siano abbastanza per distinguere univocamente una società da un’altra. Non c’è bisogno di sottolineare il perché l’Athletic Bilbao sia diverso dal Real Madrid, così come è evidente a chiunque quali siano le differenze tra il Napoli e la Juventus. Pertanto, l’attenzione di questo articolo si concentrerà sulle caratteristiche del secondo tipo; quelle che non sono incluse nell’atto di fondazione della società, ma che si formano durante la sua storia, a volte in maniera spontanea e altre sulla base di manovre pianificate.

Come detto, lo stile di gioco fa parte delle principali caratteristiche acquisite, tra le quali è una delle più interessanti e influenti, tanto che può arrivare a rappresentare, da solo, una parte consistente del DNA di una società. Per fare due esempi molto immediati, il Barcellona e l’Ajax odierni hanno un DNA “stilistico” molto chiaro e facilmente riconoscibile, che nel tempo è divenuto persino parte integrante dei loro brand: un modo di giocare a calcio che viene insegnato sin dal primo allenamento della scuola calcio, e che è puntualmente riproposto dalla prima squadra in ogni domenica di ogni stagione, a prescindere da chi sia l’allenatore o da quali giocatori siano arrivati durante le campagne acquisti.

Sia per i catalani che per gli olandesi, questa parte di DNA non è stata decisa dai soci fondatori, ma si è formata grazie a vere e proprie rivoluzioni culturali all’interno dei club, in seguito alle quali un certo tipo di pensiero calcistico si è imposto fino a diventare parte delle strategie societarie; un pensiero che poi – oltre a risultare particolarmente distintivo e identificabile – si è dimostrato vincente, sia nel breve che nel lungo periodo. 
La distinguibilità di questi stili, e soprattutto il fatto che si siano legati a lunghi cicli di vittorie, ne ha permesso dunque il consolidamento, facendoli passare da idee contingenti a elementi costitutivi delle società.

Gli stili, comunque, possono affermarsi anche senza passare per delle rivoluzioni culturali. Per fare un esempio che ci è caro, è noto a tutti quale sia lo stile di gioco che contraddistingue l’Inter, un club che storicamente ha costruito le proprie vittorie su un calcio “accorto”, fondato sulla capacità di difendere vicino alla propria area e di ripartire velocemente. Ovviamente, questo atteggiamento tattico è suscettibile di mille variazioni sul tema, ma se pensiamo alle tre Inter più forti della storia – la prima Grande Inter, l’Inter dei record del Trap e quella del Triplete – appare evidente quale sia la filosofia che le accomuna. Le grandi vittorie ottenute da queste squadre hanno stabilito una sorta di standard, un tipo di gioco che i tifosi identificano come vincente, e a cui sono quindi legati e abituati: per questo, difficilmente gli interisti si scandalizzano se vedono la propria squadra che lascia il pallone agli avversari e si difende a pochi metri dalla porta.

Quello dell’Inter è l’esempio di uno stile che si è formato in maniera più “spontanea” rispetto a quelli di Barcellona e Ajax: Herrera e Trapattoni non erano tecnici rivoluzionari, ma esponenti di spicco del pensiero calcistico dominante delle loro epoche, mentre Mourinho è un tecnico estremamente flessibile e del tutto compatibile con la (ormai sempre più ex) tradizione tattica italiana. In questo caso, i dirigenti che li hanno scelti non intendevano costruire su di loro una nuova ideologia; sono state le grandi vittorie a far sì che quel modo di stare in campo si radicasse nell’immaginario collettivo dei tifosi.

Oltre all’atteggiamento tattico, un’altra somiglianza fra questi storici tecnici è la personalità, il che suggerisce un’altra caratteristica acquisita che fa parte del DNA del club nerazzurro: l’atavica necessità di un uomo forte al comando. Gli ultimi sessant’anni di storia ci dicono che difficilmente all’Inter si sono imposti dei tecnici “aziendalisti”, ma che, a causa di una numerosa serie di fattori extracampo, per vincere si è sempre resa necessaria la presenza di una figura in grado di assorbire le varie turbolenze dell’ambiente (e, come è riuscito a fare straordinariamente Mourinho, a tramutarle persino in carburante). È chiaro che anche queste caratteristiche – che per l’Inter, soprattutto negli ultimi trent’anni, sono rappresentate dall’estrema vulnerabilità mediatica, dalla volubilità dei tifosi e dal loro spiccato gusto per la drammatizzazione, oltre alla stringente necessità di distinguersi filosoficamente dagli odiati rivali juventini – siano parte integrante del DNA del club, e che rappresentino qualcosa con cui chiunque arrivi in società è chiamato a fare i conti. 

Questo è vero, in generale, per qualunque società di vertice: e un allenatore (o un dirigente, o un giocatore) che si dimostri in grado di comprendere questi aspetti avrà vita molto più facile di uno che invece li ignora, o che – per vari motivi – non li può rappresentare. Mourinho, per esempio, seppe intercettarli alla perfezione, comprendendo il modo in cui l’ambiente nerazzurro poteva essere caricato e unito a fianco della squadra; il portoghese, di fatto, è riuscito ad “allenare” anche i tifosi, e questa profonda comprensione del contesto, insieme alla perfetta compatibilità tra detto contesto e il suo modo di essere, ha rappresentato una componente fondamentale del suo successo.

Un esempio di segno opposto, invece, può essere quello di Sarri alla Juventus. L’allenatore toscano ha un profilo “proletario”: si è formato partendo dal basso, con una gavetta ventennale in provincia, e – come una famosa pagina Facebook non mancò al tempo di rimarcare – si è costruito un’immagine di uomo che “lotta” contro il potere, che anela a scardinare il dominio altrui piuttosto che ad esercitarlo. Queste caratteristiche si riflettono in tutto il suo modo di essere, dal modo di vestirsi a quello di parlare, dal portamento all’atteggiamento in panchina: ed è piuttosto evidente che un personaggio del genere fosse profondamente fuori contesto in un club espressione di un potere secolare, la cui figura di riferimento per decenni è stata quella di Gianni Agnelli. 

Questa incompatibilità si è palesata sin dalle prime settimane, e si è rivelata talmente profonda che, nonostante la vittoria dello scudetto, Sarri è stato allontanato dopo appena una stagione (cosa che alla Juve non accadeva dai tempi di Delneri). Il suo essere fuori contesto non gli ha permesso di conquistare l’ambiente come era successo durante i suoi anni al Napoli, né di guadagnarsi la fiducia di numerosi elementi chiave dello spogliatoio, da Chiellini a Cristiano Ronaldo; per questo, pur dopo averlo ringraziato per il lavoro svolto, è stato rigettato alla prima occasione, e sostituito con un (ancora apprendista) allenatore più calzante, almeno a livello superficiale, con quello che è il DNA del club.

Mutabilità e immutabilità

Una domanda che emerge a questo punto è come e quanto questi elementi “genetici” acquisiti siano in grado di mutare. Per esempio, negli ultimi anni mi è capitato numerose volte di sentire tifosi interisti che si chiedevano “ma sarà possibile, un giorno, vedere un’Inter con un atteggiamento diverso, che sia padrona del campo e del gioco?”.  

Nel cercare di rispondere a questa domanda, il pensiero corre immediatamente alla sciagurata esperienza nerazzurra di Frank de Boer. Il tecnico olandese era, ed è tuttora, un esponente di uno stile di gioco molto lontano da quello tipico della tradizione interista, stile che ha tentato di esportare anche a Milano. Il suo tentativo di “rivoluzione”, però, è durato pochissimo, poco più di due mesi, trascorsi i quali è stato allontanato bruscamente dall’incarico. 

A leggerla così, potrebbe sembrare che il motivo per cui le cose non hanno funzionato sia la divergenza tra il gioco che l’Inter ha storicamente adottato e quello che l’allenatore olandese aveva in mente. Questa, però, sarebbe una conclusione troppo semplicistica, che tralascia tutta una serie di fattori.

La questione principale, qui, è che un cambio di paradigma così profondo necessita di essere sostenuto prima di tutto a livello societario. Se in un certo posto si è abituati a un tipo di calcio x, il passaggio a un calcio y ha bisogno di essere preparato, guidato e, soprattutto, fortemente voluto. Poniamo che la dirigenza decida che bisogna cambiare e passare a un altro tipo di gioco; questo stile, allora, diviene parte integrante della società, e diventa il tipo di calcio che viene insegnato in tutti i livelli delle giovanili; i giocatori della prima squadra, così come gli allenatori, vengono scelti in base alla loro aderenza ai principi di gioco individuati. I risultati nell’immediato contano fino a un certo punto: nel caso si renda necessaria la sostituzione di un allenatore, la scelta del successore ricadrà su un profilo con le medesime caratteristiche, in grado di portare avanti il discorso che si è scelto di intraprendere.

Cosa è successo, invece, all’Inter 2016/17?

De Boer è stato ingaggiato senza che la società avesse intrapreso un progetto tattico chiaro. È stata una scelta improvvisata, arrivata a metà agosto e non condivisa da una larga fetta della dirigenza. Ad Appiano arrivò un uomo totalmente alieno al pianeta Inter e al campionato italiano, uno che – sia metaforicamente, che letteralmente – parlava una lingua che nessuno era in grado di capire. In più, l’olandese si ritrovò esposto a un furore mediatico inusitato, con attacchi violentissimi e continui (si pensi all’oltraggiosa prima pagina “Frank Di Burro”, il giorno dopo uno sfortunato pareggio in una partita stradominata contro il Palermo, o all’altrettanto famosa “Inter, ma non ti vergogni?”, dopo la pur disastrosa sconfitta contro il Beer Sheva).

Con questi presupposti, il disastro era più che annunciato. In una situazione del genere, in cui le mancanze della società sono assai gravi, un allenatore molto distante dal DNA del club fa molta più fatica a imporsi rispetto a uno più tradizionalista.

Occorre puntualizzare, poi, che un cambio di paradigma in una società come l’Inter può risultare più complicato che in altre, a causa anche dei numerosi fattori extra-campo di cui abbiamo discusso precedentemente. Un tecnico con idee distanti da quelle a cui i tifosi sono storicamente legati parte già con la strada in salita, e tende ad essere visto con sospetto dal pubblico; se da principio può esserci una certa eccitazione per la novità, appena le cose iniziano ad andar male è automatico il pensiero “ma non era meglio prima?”, e le incompatibilità cominciano a farsi sentire. I favori dei tifosi, banalmente, si comprano vincendo: ma se non si vince, è più rassicurante farlo alla maniera tradizionale, piuttosto che affidandosi a nuove diavolerie.  

Tutto questo si riflette anche sul modo in cui vengono giudicati i calciatori: il pubblico interista tende ad affezionarsi molto facilmente ai giocatori di grande carattere e intensità (p.e. Ince, Simeone, o più recentemente Barella), compatibili con l’impostazione tattica tradizionale e in grado di evocare i grandi del passato; diversamente, vede con maggiore diffidenza i profili estrosi ma più timidi, svagati, discontinui (come Bergkamp, o il primo Eriksen). Per questo, per quanto sia brutto a dirsi, sappiamo tutti benissimo che è molto più probabile che a San Siro venga fischiato un Bergkamp che un Medel. 

Dunque, per tornare alla domanda circa la possibilità di vedere un’Inter diversa, all’olandese o alla catalana, la risposta è che sì, si potrà vedere, ma non grazie a una semplice scelta di mercato, o all’ingaggio improvviso di un certo allenatore; c’è bisogno che la società si prenda la briga di impostare e portare avanti con convinzione, sul lungo termine, un discorso tecnico che vada in questa direzione. Fermo restando che, se i risultati non dovessero arrivare, la pazienza rischierebbe di essere poca, oltretutto in un ambiente altamente umorale come quello nerazzurro, e la voglia di tornare al caro vecchio gioco accorto si farebbe più forte di settimana in settimana; per questo, l’innesto di un tecnico “offensivista” sarà sempre più complicato di quello di un tecnico “difensivista”.

Le caratteristiche di Conte, a parte quel “dettaglio” del passato juventino, sono molto compatibili con la tradizione interista.

Pensando a un cambio di DNA imposto a tavolino dalla dirigenza, uno dei primi casi che vengono in mente è quello del Milan, che fino al 1986 aveva costruito le sue vittorie su un tipo di calcio molto tradizionalista, incarnato alla perfezione dalla figura di Nereo Rocco (che è comunque, ancora oggi, il tecnico con più panchine nella storia della società rossonera).  L’arrivo di Berlusconi ha mutato radicalmente il DNA del Milan, che è di colpo divenuto un club in cui i risultati dovevano essere raggiunti per mezzo del cosiddetto “bel giuoco”, e dove la vetrina internazionale ha assunto più importanza di quella locale. In questo caso, dunque, la dirigenza ha costruito da zero una nuova identità, e l’arrivo di Sacchi, marziano nel calcio italiano anni ’80, ha segnato il punto d’inizio di un radicale cambio di paradigma, i cui effetti durano ancora oggi. 

DNA “Senza stile”

Ora, è chiaro che questo discorso vale principalmente per i top club. Se è vero che lo stile di gioco si consolida con le vittorie, ne consegue che chi di vittorie in bacheca ne ha poche (o nessuna) difficilmente può legarne uno alla propria storia. Ma ciò significa che queste società non abbiano un DNA che le contraddistingue? 

Ovviamente, no: oltre alle caratteristiche fondanti, che in alcuni casi rappresentano già di per sé dei forti elementi di distinzione, ci sono caratteristiche acquisite diverse dallo stile in grado di plasmare delle identità che, in alcuni casi, possono essere altrettanto forti e radicate di quelle dei top-club. 

Un esempio interessante, sempre rimanendo in Italia, è quello della Roma. La società giallorossa vive da sempre in un ambiente assai particolare, in grado di influenzare pesantemente le sorti della squadra. La vicinanza della tifoseria al club è estrema, quasi patologica; c’è una costante attenzione alle vicende della squadra, che vengono monitorate in tempo reale. Ne consegue che la suscettibilità dell’ambiente agli eventi positivi e, soprattutto, a quelli negativi, è molto più elevata che in altre piazze, e ciò rappresenta a tutti gli effetti un unicum.

In queste condizioni, riuscire a portare a casa un trofeo importante è molto complicato, come testimonia lo scarno palmares di una società che, eppure, ha sempre occupato i piani alti della classifica (spicca, qui, l’alto numero dei campionati conclusi al secondo posto, ben 13). L’elevata emotività fa sì che, dopo sconfitte particolarmente pesante o rocambolesche – eventi che, non a caso, si succedono a Roma con una certa regolarità – l’ambiente sprofondi in veri e propri psicodrammi, durante i quali una città intera rimane immersa per giorni in atmosfere funeree; e che, al contrario, dopo bellissime vittorie, ottenute però quando il traguardo non è ancora raggiunto (si pensi al 2-1 contro l’Inter nel 2010, o al clamoroso 3-0 al Barcellona del 2018), l’esaltazione sia totale e distolga l’attenzione dal prosieguo del cammino.

Pallotta nella fontana dopo la vittoria di quarti di Champions contro il Barcellona

È questo uno dei casi, quindi, in cui anche le non-vittorie contribuiscono a creare il profilo della società, e costituiscono parte integrante della sua storia e della sua identità. Lo storico delle sconfitte e la reputazione che ne consegue sono parte dell’immaginario collettivo di un club, e i calciatori che vi militano finiscono per risentirne anche se sono cresciuti a migliaia di chilometri di distanza, o se giocano in quella squadra solo da qualche mese; sono, queste, informazioni che l’ambiente trasmette direttamente a chi va in campo, e che è molto complicato riuscire a gestire.

Per tutti questi motivi, per allenare con successo una squadra come la Roma non è sufficiente essere bravi e preparati, ma bisogna essere prima di tutto in grado di sopravvivere in una piazza ingovernabile, riuscendo a gestire un tipo di pressione che non esiste in nessun’altra città del mondo. Allenare la Roma, insomma, non è come allenare il Lipsia, o il Monaco, dove “basta” essere in grado di saper far bene il lavoro sul campo.

DNA Nazionale

Concludo questa affatto breve dissertazione con una postilla sul DNA delle nazionali di calcio, analizzato sempre dal punto di vista delle caratteristiche acquisite – e quindi degli stili di gioco distintivi delle varie selezioni.

Fino a un paio di decenni fa, i diversi DNA calcistici erano numerosi e facilmente riconoscibili, noti anche a coloro che di calcio si interessavano relativamente. L’Italia era fortissima in difesa; la Germania fisica e pragmatica; la Spagna tutta possesso palla e qualità, ma poco incisiva; l’Olanda figlia del calcio totale anni ’70; il Brasile pieno di talento e fantasia, eccetera eccetera.

Negli ultimi quindici anni, e con un’accelerata particolare nel decennio appena trascorso, si è concretizzato un fatto inedito nel panorama calcistico internazionale: l’adesione pressoché generalizzata, a tutte le latitudini, a un particolare paradigma di gioco, con la conseguente messa in cantina dei vari pensieri calcistici tradizionali. Le vittorie della Spagna nel quadriennio 2008-2012, unite a quelle del Barcellona di Guardiola, hanno imposto agli occhi del mondo un certo modo di fare calcio, che è improvvisamente divenuto dominante a livello internazionale.

La prima ad adeguarvisi è stata la Germania, che ha avvertito prima di tutti la necessità di un cambio di direzione ed ha cominciato a lavorarci già dopo il disastroso europeo 2004, con l’arrivo del duo Klinsmann-Loew alla guida della nazionale e con una generale sostituzione dei vertici calcistici a livello federale. La patria dei Kahn, dei Matthaus, dei Sammer e, appunto, dei Klinsmann ha improvvisamente iniziato a produrre i Neuer, i Kroos, gli Ozil, i Boateng e i Kimmich. 

Successivamente, con diversi anni di ritardo, praticamente tutte le nazionali europee (e anche numerose selezioni del resto del mondo) hanno virato verso il “paradigma spagnolo”, a volte anche con manovre piuttosto brusche e non ben preparate. Il risultato è che, oggi, quasi tutte le nazionali del vecchio continente giocano con principi simili, applicando alle linee guida generali soltanto delle minime modifiche a seconda del materiale a propria disposizione.

Questo fatto rappresenta un evento epocale, una vera e propria modifica di DNA a livello collettivo, che ha sconvolto le antiche diversità calcistiche. Vent’anni fa, ma anche soltanto dieci, sarebbe stata pura fantascienza immaginare un’Italia retta da un centrocampo tutto tecnica e abilità nello stretto, impostata per tenere il possesso della palla e difendere lontana dalla porta. Difensori centrali non più arcigni marcatori, ma abili palleggiatori; terzini poco applicati nelle chiusure e attivissimi nelle propensioni offensive; centrocampisti più bravi a tenere il pallone che a contrastare; esterni d’attacco e non più seconde punte. È la dimostrazione che sì, i DNA possono cambiare anche quando sono molto radicati (e vincenti), e che possono farlo anche assai rapidamente, a volte anche troppo. 

Il cambio di credo tattico in Italia è stato davvero repentino, quasi dal giorno alla notte, ed ha fatto sì che un’intera generazione di giocatori (quelli, diciamo, nati dal 90 al 97) si ritrovasse in mezzo a una rivoluzione: se da piccoli erano stati cresciuti secondo certi principi calcistici, improvvisamente questi non erano più validi, e dovevano essere sostituiti con altri. È normale che tutto ciò abbia generato in loro una certa confusione, testimoniata dai numerosi giocatori di questa fascia di età che sono venuti su rimanendo in mezzo, senza essere né carne né pesce (si pensi, per esempio, a Romagnoli, Bernardeschi, Rugani, Cristante, persino Immobile – che pure è un giocatore compiuto, ma che fatica molto nella squadra di Mancini, così come ha faticato a Siviglia e a Dortmund – e Florenzi, criminalmente tramutato in terzino perché mancante delle caratteristiche “spagnole” per stare in mezzo al campo).

Altro elemento di confusione è rappresentato dal fatto che la genetica (stavolta in senso letterale, e non metaforico) degli altri paesi che hanno optato per il “paradigma spagnolo” è cambiata, grazie all’inserimento di un massiccio numero di figli di immigrati che hanno variato le caratteristiche fisiche dei componenti delle selezioni nazionali; quella dell’Italia, a oggi, è invece rimasta sostanzialmente la stessa, e solo nei prossimi anni si potrà apprezzare una vera inversione di tendenza. Ne consegue che ci siamo improvvisamente messi a plasmare dei tipi di giocatori che non combaciano del tutto con il materiale genetico a nostra disposizione, che invece si è sempre dimostrato efficace nel produrre i profili che si è scelto di accantonare. Questo, insieme al ritardo nella preparazione dei nostri tecnici, che si sono rapidamente reinventati ma che, per forza di cose, hanno un gap importante con coloro che insegnano questi concetti da decenni, ha rappresentato, nell’opinione di chi scrive, uno dei motivi della scarsa competitività del calcio italiano dal 2006 a oggi (un’altra, forse la principale, è la drammatica involuzione del livello della Serie A, della quale parlerò magari in un altro post perché si è davvero fatta una certa ormai).

Bene, giunto a questo punto direi che posso fermarmi. Un saluto e una serena Pasqua a tutti.

Grappa

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