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Una domenica da Deltaplano

Due giorni fa ha compiuto 49 anni, Walter Zenga, milanese di Milano. Domenica dovrà scontare un turno di squalifica per aver insultato ”incaricati di Organismi federali e della Lega” al termine della sconfitta del suo Catania sul campo del Lecce. Sconfitta quasi scontata, per l’abisso delle diverse motivazioni, eppure Zenga non ci sta mai a perdere, e questa squalifica lo dimostra.
Brera lo chiamò “Deltaplano” per la straordinaria apertura alare, e mi pare di ricordare che il soprannome arrivò dopo un’inverosimile parata in nazionale contro la Svizzera.
Considero Zenga il più grande portiere della storia dell’Inter, nonostante abbia vinto solo uno scudetto e un paio di Coppe Uefa, giocando titolare per dieci o undici stagioni e 473 partite ufficiali. Era l’idolo della curva, anche perché veniva dalla curva, ma forse non tutti ricordano che nell’estate 1988 voleva andarsene, dopo aver pronunciato parole poco concilianti: “Qui all’Inter non si vince niente”. L’anno dopo, al terzo tentativo trapattoniano, arrivò lo scudetto dei record.
Con i miei occhi ho assistito alla faticosissima conquista della Coppa Uefa 1994, contro i modesti austriaci del Salisburgo. All’andata, era finita 0-1 grazie a Berti, schierato centravanti, su lancio di Ruben Sosa; ma per ottantacinque minuti il pallone era rimasto nella metà campo nerazzurra, e furono decisivi Zenga e Manicone, Angelo Orlando e Antonio Paganin, nonché Bergkamp, che si sacrificò da terzino.
Al ritorno, proprio sotto la tribuna dove cercavo di stare seduto, ricordo il tuffo al cuore per un tiraccio austriaco che andò a colpire il palo sinistro, poi quello destro, sullo 0-0, prima che Jonk segnasse il gol della sicurezza. Quella sera, Zenga giocò l’ultima partita con la maglia dell’Inter e fu il migliore in campo. Si è sposato due o tre volte, sempre con donne bionde dalle gambe lunghe, e credo che abbia sofferto tantissimo per la caduta dei capelli, lui che ostentava un ciuffo “alla Marco Civoli”.
Sono convinto che farà l’impossibile per fermare il Milan, domenica a Catania. Impresa ai limiti dell’impossibile, schierando i Morimoto e i Silvestri, i Potenza e i Kosicky, i Capuano e i Baiocco. Ma non lascerà niente di intentato – come l’anno scorso contro la Roma all’ultima giornata – perché se Deltaplano insegue ancora un sogno, è quello di arrivare un giorno alla panchina nerazzurra. Io lo aspetto.
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Rudi

Rudi Ghedini, bolognese di provincia, interista dal gol sotto la pioggia di Jair al Benfica, di sinistra fin quando mi è parso ce ne fosse una.

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