Bauscia Cafè

Impotenza e mal di gola

In momenti come questo verrebbe voglia di buttare tutto nel cesso e tirare lo sciacquone.
Hai voglia a ripeterti che mancano ancora tante partite, che si può lottare per un obiettivo, che non era quella di Torino la partita da vincere.
Il problema è che nessuna, ormai, è diventata la partita da vincere: il primo ad esserne consapevole è stato Mancini, andato allo Juventus Stadium con un 532 dal sapor mediorientale all’insegna del “difendiamo lo zero a zero e che Prisco ce la mandi buona”.
Ma l’atteggiamento, da due mesi a questa parte, è sistematicamente quello del “primo non prenderle”. E le conseguenze sono state nefaste.
Chiariamo subito una cosa: Mancini non è e non può essere l’unico responsabile di un’altra stagione dalla quale, verosimilmente, usciremo con le ossa rotta e, dettaglio ben peggiore, con un nulla di fatto nella casella “basi per il futuro”.
In campo ci vanno i giocatori, gli stessi giocatori cui raramente vediamo sputar sangue, troppo impegnati a protestare per rincorrere un pallone o rimediare all’errore di un compagno, troppo pettinati per colpire all’indietro un cross innocuo, invece di farlo diventare l’assist perfetto per il gol del giocatore più stronzo che potesse segnare (ogni riferimento ai fatti di domenica sera è puramente non casuale); giocatori che, però, questo tecnico ha scelto, obbligando la società a inseguimenti estivi quasi comici per portarli in nerazzurro ad ogni costo.
Il risultato? 27 formazioni diverse in 27 giornate di campionato, e il blocco dei nuovi arrivati scaricato quasi in toto.
Non si è mai capito come dovesse giocare quest’Inter, non si è neppure capito cosa sia accaduto dopo Inter-Lazio, inizio della fine; uno dopo l’altro sono stati tutti accantonati, la squadra ha perso fiducia, forse per inseguire un’idea di calcio offensivo insostenibile, forse perché chi dovrebbe guidarla e farle trovare la giusta tranquillità è stato il primo a perdere la testa.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti: andare a Torino per lo 0-0, rinunciare a qualsiasi velleità offensiva e lasciare che una Juventus mediocre (perché questo è stata domenica sera la Juve, una squadra mediocre, poco pericolosa, cui è bastato vivacchiare per portare a casa un doppio vantaggio, tanto l’Inter si fa gol da sola) potesse serenamente difendere l’1-0, perché di cambiare passo o provare qualcosa di più coraggioso nessuno aveva voglia o tantomeno la forza.
Se il trascinatore diventa Palacio, ragazzo commovente per applicazione e impegno, ma pur sempre un 34enne a fine carriera, è segno che altri stanno facendo gli spettatori lautamente pagati.
Allenatore incluso.
Non era questa la partita da vincere, dicevamo.
Però c’è modo e modo di prepararsi ad affrontare una squadra superiore: se l’idea iniziale poteva essere giusta, è inammissibile tornare in campo nella ripresa con la ghiaia negli occhi e la voglia di far segnare gli altri. Si sentiva puzza di cacca lontano un miglio, l’erroraccio demenziale di D’Ambrosio è stato solo una logica, prevedibile conseguenza.
E anche dopo quell’episodio il nulla. Nessuna reazione. Un fastidioso possesso palla orizzontale, con l’avversario pronto ad approfittare del primo errore nella gestione per andare in contropiede e gabbarti ancora una volta.

La stessa faccia che avevamo noi a fine partita.
La stessa faccia che avevamo noi a fine partita.
L’allenatore non è e non sarà il primo problema, ma resta un problema.
E lo è perché non parliamo più di un esordiente terrorizzato da pressioni troppo grandi da sostenere, o perché le richieste tecniche non siano state accontentate e in campo vada gente che fino allo scorso anno palleggiava in Lega Pro.
Si potrà discutere del centrocampista che non serviva, e invece sì che serviva, dei soldi spesi per Kondogbia, della panza di Eder, ma questa squadra ha i giocatori per fare un calcio che vada oltre il mettersi a specchio, il tirare a campare o il turnover compulsivo del girone d’andata, certo positivo in termini di risultati, ma nocivo per l’impianto di gioco, difatti inesistente.
Chi scrive che Mancini è questo, è uno che ha bisogno di campioni per funzionare, ne ammette implicitamente la mediocrità. E lo scrivo da sostenitore dello jesino.
Se la tua unica forza diventa quella di collezionare figurine non si può andare lontano. Perché anche le squadre di 11 campioni hanno bisogno di una base sulla quale muoversi: il lavoro fatto sul campo paga, lo sa anche Allegri che, con intelligenza, continua a sfruttare quanto fatto da Conte negli anni precedenti, cambiando laddove i meccanismi avevano cominciato a scricchiolare.
Nella congiuntura attuale è impensabile avere i famigerati Campioni su un piatto d’argento; arrivano i buoni giocatori, ed è tuo dovere farli rendere al meglio, soprattutto se li hai richiesti.
Cambiarlo? Difficile dirlo. Sicuramente non subito, sarebbe l’apoteosi del disastro.
Ma credo sia intelligente pensarci, a fine stagione, soprattutto se il terzo posto ci sarà sfuggito come temo. Pensare a qualcuno che sappia lavorare col materiale umano a propria disposizione, che sappia “accontentarsi” pensando prima ad instillare nei giocatori un’idea specifica di come stare in campo, e poi al resto.
Personalmente credo ancora troppo nel ruolo dell’allenatore per pensare che, alla fine, la differenza la faccia quasi esclusivamente chi va in campo: anche il campione più grande, se mal gestito, può diventare un problema difficile da risolvere.
E i grandi giocatori, in senso assoluto, sono quelli che nelle giornate nere, quando non gira nulla come dovrebbe o trovi un avversario particolarmente motivato o in palla, ti risolvono comunque la partita con un passaggio geniale, un gol da antologia, una presenza costante dentro e fuori dal campo per evitare che la squadra si lasci prendere dallo sconforto.
Sono un valore aggiunto, all’interno di un sistema che funziona o che, almeno, abbia un proprio meccanismo specifico.
Non ho affatto apprezzato (usando un eufemismo) che Mancini non si sia presentato nel dopopartita con la scusa del malessere.
Il malessere è il nostro, è quello di chi va allo stadio a congelarsi il culo per vedere prestazioni incolori o gente che esce senza una goccia di sudore addosso; ed è quello di chi capisce che il proprio allenatore non solo non ha più le palle per gestire il suo gruppo, ma neppure per mettere la faccia dopo l’ennesima figuraccia.
Lo ha fatto Ausilio, che ha difeso l’operato di Mancini (per contratto?) e ha apertamente accusato di scarso impegno gran parte dei nuovi arrivati, creando per la carta stampata male nuovi, affascinanti casi da sfruttare per vendere qualche copia in più, allegando ovviamente tonnellate di gadget inutili e vhs porno; lo ha fatto per dare una scossa ad un ambiente che sembra ormai vittima di se stesso, dove nessuno si sente in grado di prendersi la benché minima responsabilità.
Servirà a qualcosa? Mi permetto di dubitarne. Ma è davvero arrivato il momento di tirar fuori le palle e metterci la faccia. Perché altrimenti continueremo a perderle entrambe, dentro e fuori dal campo.

NicolinoBerti

Coglione per vocazione, interista per osmosi inversa dal 1988 grazie a un incontro con Andy Brehme. Vorrei reincarnarmi in Walter Samuel, ma ho scelto Nicola Berti per la fig...ura da vero Bauscia.

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