Bauscia Cafè

Briatore Radical Chic

E’ martedì ed al circolo è serata di Champions. Io e gli altri due fedelissimi siamo leggermente in ritardo e camminiamo di buon passo verso l’entrata. Sugli scalini che precedono l’ingresso, incrociamo uno degli altri habituè del posto. Sta parlando al telefono. Ci fa un cenno, poi torna al suo interlocutore e gli dice  “corri, è carico, ha appena preso il caffè. Sta scalpitando”.
I nostri volti si illuminano. Sappiamo a chi si sta riferendo. C’è solo un uomo a cui ci si può riferire in questi termini.
Acceleriamo il passo. Il prime time della stanza principale è riservato al Napoli. Ci tocca la stanzina, vecchio feudo di battaglia di remote domeniche pomeriggio, quando vi eravamo costretti dalla concomitanza con le partite della Fiorentina, ai cui tifosi, più numerosi, toccava la stanza grossa. Un rapido sguardo allo schieramento, che come avevamo intuito è quello base, con tutti i big (e, soprattutto, Il big) a far bella mostra di sé:
Lehalo è in fondo, pronto ad inveire; Maiho nel mezzo, circondato da due scagnozzi; di punta, l’Imbecille ed, ovviamente, Briatore. Per lui, un look da Radical Chic: scarpa vintage come se ne trovano solo a Camden, pantalone di velluto, camicia azzurra con cravatta e maglioncino a V sopra, cappotto indie, sciarpetta e, a guarnire il tutto, cappellino di lana con ciuffo sbarazzino che spunta da sotto.
Mancava all’appello da quasi un mese.
Ci sediamo ovviamente dietro di lui, per non perdere nemmeno il mugolio più impercettibile.
La partita inizia. I primi minuti scivolano via tranquilli, senza offrire spunti interessanti ai fuoriclasse presenti in aula (a parte quando Samuel spintona Burak e gli spezza una costola, con l’arbitro che fischia il fallo: Briatore si gira ed asserisce convinto “non era miha punizione, sai”, dando di gomito all’Imbecille).
Ci vuole un’azione pericolosa del Trabzonspor per accendere gli animi: Burak, ancora lui, spara fuori di non molto col destro, ed ecco affiorare i primi mugugni. Briatore, particolarmente innervosito dal mancato intervento di Lucio, mette da parte le facilonerie e si alza in piedi per una dimostrazione tecnica: si gira da una parte, poi dall’altra, abbozza un doppio passo e fa “come tu fai a fermallo così il giocatore!? Nimmeno ni Chiesanova (squadra di quartiere nella quale Briatore millanta una lunga militanza, ndr)”.
Da dietro, qualcuno dice “è vero”, ed anche “roba da maiali”. Tornato a sedere, il nostro si gira verso Maiho e gli dice “Che te lo ricordi, i Chiesanova?”. Maiho però non risponde, abbozza un mezzo sorriso e poi si guarda attorno. E’ spaesato, è chiaro che c’è qualcosa che non va.  Non è il Maiho di sempre e, dopo qualche istante di riflessione, non è difficile intuire il perché.
In campo, infatti, non c’è Maicon. Questo priva Maiho della sua ragion d’essere: vorrebbe insultare qualcuno, ma non può.  Non sa che dire, non sa che fare. Quando Maicon non c’è, Maiho si disorienta, privo del suo punto di riferimento, e vive i novanta minuti della partita in uno stato di totale confusione.
Briatore capisce il dramma del suo compagno e cambia discorso dicendo “Burakke, in do ttu’vo andà co Burakke” (“Burak, ma dove vuoi andare con Burak”), conscio del fatto che non ci sarà possibilità di duettare col suo compagno preferito.
Le emozioni, come al solito, provengono più dai nostri vicini che dal campo. La partita è accompagnata da reiterate critiche alla squadra ed al gioco, con numerosi “vergogna” e “che schifo”. Ad un tratto, un imprecisato personaggio irrompe nella stanza, urla “Mamma li turchi!”, e va via.
Pochi minuti dopo, le telecamere inquadrano Figo seduto in panchina in tuta da calciatore. Proprio mentre ci si interroga se, allo stato attuale delle cose, sia più lento lui o Alvarez, il compassato argentino scambia elegantemente con Milito e mette dentro un bel gol. L’entusiasmo serpeggia tra gli avventori, che in un attimo passano dal feroce ghigno di protesta alla felicità. Lehalo, ebbro di gioia, urla “Gl’ha marcaho Altobelli!” (“ha segnato Altobelli!”).
Il vantaggio, però, dura poco. Cinque minuti dopo, Altintop lascia partire un tiro da fuori che impatta contro una natica di Samuel e finisce alle spalle di un incolpevole Julio Cesar, indicato però a gran voce come il responsabile della rete subita. Lehalo, non appena il nostro portiere viene inquadrato dalle telecamere, prende dunque fiato e carica l’ugola. Tutti si girano verso di lui. “E’ il momento”, pensiamo.
A questo punto, però, succede una cosa impronosticabile, mai vista, mai sentita. Dalla bocca di Lehalo, infatti, non si leva il suo caratteristico urlo di battaglia, ma bensì
“Cambialooooooooooo!!”
L’intero circolo è spiazzato. In anni ed anni, mai era accaduto qualcosa di simile. Ci si scambiano sguardi preoccupati, come a dire, “e ora?”. La tensione è tale che nessuno si azzarda a chiedere a Lehalo il perché di questa agghiacciante rivoluzione, mentre lui fa il vago e borbotta cose intraducibili come suo solito.
A rompere questo stato di stallo ci pensa, ovviamente, Briatore, che ripropone un vecchio numero del suo repertorio: lo spogliarello. Quando sopravviene l’inverno più fetente, infatti, il nostro è solito arrivare al circolo bardato come uno scalatore di montagne; logicamente, il clima mite delle sale tv lo costringe a togliersi gli indumenti di troppo, per non schiattare dal caldo. Prima della sua svolta Radical Chic, Briatore era solito indossare, una sopra l’altra, almeno 4-5 giacche (provenienti da completi diversi), con ogni probabilità rimasugli del suo guardaroba da nababbo; ecco dunque che, dal momento in cui si sedeva, a intervalli regolari si alzava in piedi, si toglieva una giacca e la gettava sul catasto di tavole di legno posto misteriosamente sotto al maxischermo (catasto che, probabilmente, era ed è  lì apposta per questo uso). A fine partita, un enorme cumulo di indumenti giaceva a pochi metri da lui, che era ormai rimasto con una sola giacca, la camicia e la cravatta.
E pure i pantaloni, eh.
Stavolta, lo spogliarello si limita a poco: via il berretto, via la sciarpa, e basta. D’altra parte il surplus di indumenti non era così eccessivo, e poi un vero radical chic il cappotto non se lo toglie mai.
I minuti scorrono, ed il primo tempo si avvia al termine. Nagatomo passa alcuni minuti di difficoltà, e Briatore lo rincuora berciando “va levato Nagatomo, è una fogna!”. Le telecamere si spostano poi su Julio Cesar, il cui volto è bagnato dal sudore: uno scagnozzo di Maiho rompe il silenzio che circonda il suo capo e dice “o com’è sudato, ma se unn’ha toccato palla, o che, è una mucca?”.
Mancano pochi secondi alla fine, ma c’è ancora spazio per le emozioni: corner per noi, tutti dentro. Mentre tutti aspettano che Alvarez calci, Lehalo si esibisce in un pezzo ormai diventato parte del suo repertorio:
“Rientra Nagatomooooooooo!”
Inutile dire che il giapponese era uno dei tre che erano rimasti a protezione della difesa.
Alvarez batte l’angolo, la difesa turca ribatte, il pallone giunge vicino al vertice sinistro dell’area di rigore. Lehalo inizia ad urlare “Rientra Nìì” e poi strozza il grido in gola, accortosi forse che Nagatomo era ben posizionato.
Finisce il primo tempo, ed arriva il momento amarcord. Si discute, infatti, della genesi del soprannome “Briatore”, che, differentemente da ciò che molti di voi penseranno, non deriva dal dorato passato del nostro eroe.
La vera storia del soprannome Briatore inizia infatti molti anni fa, agli albori di Sky e del circolo, che prima non trasmetteva le partite perché, a detta dei gestori, “Tele + è da fascisti”.
Questa me la sono inventata adesso.
Comunque, molti anni fa alle partite era solito presenziare anche un altezzoso bellimbusto sulla cinquantina tarda, col ciuffo bianco al vento, la faccia da sciupafemmine cesse ed una panza tanta, che indossava (il bellimbusto, non la panza) sempre una camicia rosa chiara aperta sul petto villoso, sul quale regnava un luccicante crocifisso. Ebbene, questo figuro fu da me subito soprannominato “Briatore”.
Successe che, un giorno, nell’oscurità della stanzina, scambiai (non so come e perché) questo Briatore primordiale per il Briatore odierno, che divenne anch’egli Briatore. Si crearono così due Briatore, ed ogni domenica ci si interrogava su chi fosse quello vero e chi fosse l’impostore, in pratica non ci si capiva più un cazzo perché io avevo cominciato a chiamarli Briatore entrambi non so per quale motivo, me li confondevo anche se erano le persone più diverse del mondo, probabilmente ero in crisi mistica da Briatore ed avrei chiamato così anche mia madre se si fosse presentata l’occasione.
Questa situazione si trascinò per diverso tempo, fino a che, un giorno, si giunse ad una conclusione pirotecnica. Era la sera di uno dei derby più adrenalinici che io ricordi, un 3-2 per noi firmato da Adriano di testa all’ultimo secondo, al tempo in cui non vincevamo una sega e quindi il derby era come uno scudetto. Al termine della partita, quando gli animi delle tifoserie (sì, al circolo entrano pure i milanisti) erano ancora caldi, scoppiò una rissa. Mentre tutti si appinzavano con tutti, due energumeni cominciarono ad insultarsi ed arrivarono testa a testa. Prendendo posizione nel mucchio, potei vederli chiaramente.
Erano proprio loro. Erano i due Briatore, l’uno contro l’altro. Volarono spinte, calci, cazzotti al vento, in un’eclissi di pance che aveva tutto l’aspetto del duello finale, dello scontro fra titani. Ne sarebbe rimasto solo uno.
Furono divisi, e poi non so come andò a finire. Fatto sta che il Briatore primordiale, da quella sera, sparì per mesi, e negli ultimi sette anni si sarà fatto vedere a dir tanto cinque o sei volte, mentre il Briatore odierno è lì che scrive pagine di storia e regna incontrastato. Il circolo era troppo piccolo per tutti e due.
Giuro che è tutto vero.
(quasi)
Ma torniamo nel presente. Prima che la ripresa inizi, mi giungono notizie dal bar sovrastante. Uno degli habituè mi riferisce di questa conversazione tra vecchi:
“Che fa l’Inter?”
“1-1”
“Vince?”
Si capisce subito che i ritmi saranno blandi, sia in partita che, e questa è la notizia, tra il pubblico. Briatore, che ha accanto un nuovo amico, farfuglia cose a proposito di fagioli e ceci, e si estranea dalla scena. Maiho è totalmente paralizzato, e devono prenderlo a schiaffi per fargli capire che è iniziato il secondo tempo. Lehalo parlotta, ma a basso volume.
In mancanza di meglio, seguiamo dunque il commento di Sky, che ci informa che in campo è nato “un certo feeling” tra Stankovic e Zokora. Samuel, intanto, riempie di cazzotti chiunque gli passi davanti, menando colpi a destra e a manca ma con tale mestiere che l’arbitro non gli fischia mai contro, e nessun avversario accenna nemmeno una protesta. Alvarez, comunque molto positivo, continua a farci annusare il tiro da fuori, per poi scaricare puntualmente sull’esterno: sono tre mesi che sta caricando il suo leggendario sinistro (definito da tutti “micidiale” per decisione presidenziale), e tutti siamo lì a sperare che ogni volta che ha un po’ di spazio sia quella buona per farci vedere se davvero ce l’ha, questo piede devastante che stacca le traverse e le sopracciglia di Agnelli.
In risposta a tutto ciò, Lehalo esclama, con molta calma, “Cambialo Alvarez”. Lo stupore serpeggia di nuovo, ma più discretamente. Quasi con rassegnazione, con tristezza, come se stessimo ormai accettando una realtà terribile, quella di un eroe che non è più lui.
Da questo momento in poi, però, complice anche l’eclissi di Briatore (che addirittura, a tratti, se la dorme), Lehalo si prende la scena e diventa l’indiscusso protagonista della seconda frazione di gara. Come ad esorcizzare le paure di chi lo temeva ormai degenerato, il fuoriclasse si scatena, regalando perle. Dopo l’ennesima palla persa da uno Stankovic misteriosamente ancora in campo, Lehalo, colmo di rabbia, urla
“Uno stiaffo (schiaffo) gli tirerei..

Dio Leone 

al che io e gli altri due schiantiamo definitivamente in un riso isterico ed irrefrenabile. Uno degli scagnozzi di Maiho mi picchietta col dito sulla spalla, io mi giro con ancora le lacrime agli occhi e lui mi fa “vi si fa ridere, eh?”.
Cazzo, sì.
Poco dopo, mentre Marianella (o chi per lui) ci informa che tra Stankovic e Zokora c’è appena stato “un duello di soli falli”, succede l’imprevedibile: Maiho si sveglia, si inserisce in una discussione tra i suoi scagnozzi – basata essenzialmente sulla critica di  giocatori a raffica – e s’incazza, imponendo con la forza le proprie ragioni pur senza dar l’impressione di star sostenendo una posizione precisa.
Nel frattempo, noi gestiamo la palla, con i turchi che non riescono più a pressare con l’intensità di prima. Siamo in una fase di stallo, nella quale sembra davvero che non possa succedere nulla. Sembra, dico, perché è proprio in questo momento, quando ormai nessuno ci sperava, che il campione che si credeva decaduto cala l’asso e risolve la serata. E’ ora, come un fulmine a ciel sereno, che il momento tanto atteso finalmente arriva.
Lehalo, infatti, non ne può più. Dopo 82 minuti passati a reprimere il primordiale istinto, la misura è colma, e niente può ormai trattenerlo. Mentre il gioco è fermo, senza che nulla lasci presagire una simile mossa, con tutta la forza che ha in corpo carica il colpo, mette le mani alla bocca e rilascia un liberatorio
“LEHALOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO!!!!!!!!!!”,
il più lungo ed intenso Lehalo mai udito, così potente che Briatore si desta dal suo torpore e, facendosi portatore del dubbio di tutti noi, si gira e chiede
“CHI?”
Lehalo non risponde, perché non ne ha la minima idea. Lui doveva solo sfogarsi.
Dopo una decina di minuti di niente, la gara termina sull’1-1, risultato che ci dà la vetta del girone con una giornata d’anticipo. Le luci si accendono e rompono l’oscurità, permettendoci di ammirare appieno il look di un Briatore che si reinfila il cappello e copre con la sua sciarpa lo sporgere della cravatta dal maglioncino. Maiho, nuovamente spentosi dopo il diverbio, viene caricato dai suoi scagnozzi e portato via insieme alla sedia, mentre alcuni passanti lo rincuorano dicendogli “dai, vedrai che torna presto”. Lehalo scompare in un angolo, si inginocchia verso la luna ed inizia a lehalare sfogando le repressioni di tutta una sera.
Noi saliamo le scale.
E’ ora di andare a casa.

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