Bauscia Cafè

Massimo, se ci sei batti un colpo

«Tra i tanti trofei che ha conquistato, ce n’è uno di cui era particolarmente orgoglioso. Non una Coppa dei Campioni, non una Coppa Intercontinentale: no. Una targa che teneva nel salotto di Villa Giovanna. […] Nel salotto di Villa Giovanna c’è una targa che l’UNESCO ha voluto consegnare a Facchetti come riconoscimento per il suo grande fair-play, per la sua correttezza esemplare. Sul premio c’è scritto: “Meglio di una vittoria”. In 600 partite giocate, Giacinto è stato espulso una sola volta. E sai perché? Non per un fallaccio o una parolaccia, ma per un applauso ironico rivolto all’arbitro, tale signor Vannucchi, che poi diresse poche altre partite in serie A. Troppo scarso. Uno che espelle Facchetti è nato per fischiare ai passeri. E anche da dirigente, da presidente dell’Inter, Giacinto è sempre stato degno della targa dell’UNESCO. Negli anni è diventato una luce, un faro alto e biondo: nei giorni di tempesta e di confusione, in Italia e all’estero, tutti gli uomini di calcio guardavano a lui, ai suoi comportamenti retti e sapevano riconoscere immediatamente la rotta da seguire: la più onesta, la più limpida. Solo un tipaccio ha cercato di imbrattare il nome di Facchetti, senza riuscirci. Un ex ferroviere, anche lui a capo di una squadra di deviatori, come il papà di Giacinto: solo che l’Ammazzacristiani deviava i binari, il tipaccio deviava gli arbitri. Meno male che è finito su un binario morto. Il dirigente Facchetti annotava i suoi pensieri su un diario e una sera scrisse: “Bisogna fare in modo che gli ideali sportivi abbiano sempre la meglio sulle considerazioni finanziarie. Difficile in un mondo dove l’egoismo tende a far dimenticare gli ideali”. Un’altra sera ha scritto una frase del Tolstoj: “Non si può essere buoni a metà”. Giacinto lo è stato per intero. Ora sai perché c’era tanta gente l’altro giorno in Sant’Ambrogio.»

«E perché hai pianto, nonno. È stato peggio di perdere un dito, vero?»
Luigi Garlando “Ora sei una stella”

Non l’avete letto? Mollate quello che state facendo, uscite subito di casa e correte a prenderlo. E leggetelo. Subito. Non c’è storia più bella di un bambino che scopre l’interismo grazie alle parole di un nonno baüscia che sa di Peppino Prisco e racconta Giacinto Facchetti.

È dallo stile e dall'eleganza del cuore che si riconoscono gli interisti. Noi siamo Giacinto Facchetti.

Io il Cipe non l’ho mai visto giocare, ma sono cresciuta vedendo questa foto dietro il bancone del bar dell’oratorio a pochi metri da San Siro. I vecchietti della briscola ne parlavano sempre, dicevano che uomini così non ne nascono più, ma noi siamo stati fortunati perché “Il Giacinto sarà sempre nostro”.

Non l’ho conosciuto, ma non ho nemmeno mai sentito parlare male di Facchetti, il giocatore, l’uomo, il dirigente. MAI. Fino a quando un bel giorno un giovane presidente di una squadra allo sbando, ha deciso che per guadagnarsi la stima dei suoi tifosi l’unico modo era attaccare Facchetti. E quale modo migliore,  proprio nel paese in cui i morti diventano automaticamente santi, che ribaltare questa simpatica usanza e reclamare uno scudetto colpevolizzando una persona che non può difendersi perché è morta?

Abbiamo assistito per settimane a uno schifo mediatico senza precedenti, fatto di attacchi gratuiti, di processi inventati, sempre con quell’odiosissimo obiettivo di far passare l’idea che “tutti colpevoli, nessuno colpevole” . Abbiamo seguito tutta la vicenda avvolti da uno strano silenzio societario.

Il popolo interista però non ha voglia di stare zitto, ci sono innumerevoli articoli che potete leggere in rete a riguardo e arrivano tutti alla stessa conclusione, sintetizzata perfettamente da Sabine Bretagna nella sua  “Lettera aperta al Presidente”:

Quella gigantografia srotolata ci ha ricordato in che cosa abbiamo creduto e in che cosa continueremo a credere. Ma fissarla in silenzio non sarà sufficiente. Il Cipe avrebbe lottato e lo avrebbe fatto senza pensarci. Semplicemente perché era giusto farlo. Non esistono altri motivi per combattere questa guerra, Presidente. Non per uno scudetto, non per quella gente lì, non per un sacco di altre cose. Lo faccia semplicemente per lui. Vada fino in fondo, faccia ricorso, alzi la voce. Non si fermi fino a quando da quella gigantografia non sarà sparito l’ultimo schizzo di fango. Lo faccia perché noi non siamo come quella gente lì. Non lo siamo e non lo saremo mai.

E leggendo le parole di Sabine ho iniziato a chiedermi “Massimo che succede?”. Cosa vuol dire “Ma penso che a esserci rimasta più male sia stata la famiglia di Giacinto?”. NOI SIAMO GIACINTO. Tutti noi ci siamo rimasti male, tutti noi ci siamo stretti intorno al ricordo infangato del Cipe e abbiamo iniziato a ripulirlo, parola dopo parola, discorso dopo discorso, sempre contro tutti.

Massimo, è ora che ti svegli, che tu veda da che parte stiamo noi. Ci vedrai in giro con le maglie del Cipe, ci vedrai lottare come sempre perché la sua memoria non sia sporcata ancora una volta.
Massimo fatti sentire, vieni dalla nostra parte e alza la voce, per una volta.

Miss Green⁵

Sono nata e cresciuta all’ombra dello stadio, nel piazzale ho imparato ad andare in bici e in motorino. Da piccola dicevo che Malgioglio era mio padre, si somigliavano molto.

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