Bauscia Cafè

La storia del Signor Franco

Sono Flavio, classe ’76 interista probabilmente per colpa di uno zio innamorato di Beccalossi. Che ha rovinato la macchina da cucire di famiglia provando a fare una bandiera dell’Inter che il mondo non ha mai visto.

Fatto sta che mia nonna diceva che già a quattro anni la seguivo via radio e mi arrabbiavo. Alla radio perché sono cresciuto in Svizzera da genitori italiani. E il calcio era quello di Ciotti su delle frequenze improbabili dove si sentiva solo ogni terza parola. Il resto era fantasia e immaginazione.

Poi appena ho potuto abbonamento e su e giù per i treni, Zurigo-Milano tutte le sante domeniche possibili per vent’anni. Questo è un racconto di quel periodo che ho scritto una decina di anni fa.


Il calcio, oltre a quelle sul campo, crea storie fantastiche, quasi senza rendersene conto. Sono racconti con protagonist unici e strampalati, figli di una passione senza limiti. Le loro storie ed emozioni – che a prima vista appaiono al limite della finzione – sono molto più vere dello spettacolo a cui assistono domenica dopo domenica.

Questa è la storia del signor Franco. Immaginatevelo come il pensionato della porta accanto, magro, oltre la sessantina, nervosetto, una faccia da vita vissuta, sempre con la cravatta sotto il maglione con il collo a “V” e il cappello in testa. Dietro quello sguardo incazzato un’espressione quasi dolce, accento veneto e un abbonamento allo stadio dal ’69.
Un personaggio così non si accontenta di uno stadio qualsiasi: lui è un abbonato a San Siro, la Scala del calcio.
Così il signor Franco, da decenni ormai, la domenica lascia la famiglia, prende la corriera e scorrazza su e giù per l’intera pianura padana per vedere e sostenere l’Inter. E fin qui il ritratto potrebbe essere quello di un tifoso qualunque, come ce ne sono un’infinità.
Uno dei tanti che si sono innamorati del calcio proprio come lo descrive Nick Hornby in “Febbre a 90”, ovvero: “mi innamorai del calcio come mi sarei poi innamorato delle donne: improvvisamente, inesplicabilmente, acriticamente, senza pensare al dolore o allo sconvolgimento che avrebbe portato con se”.

Ma ecco che irrompe l’originalità, il genio artistico del tifoso, l’estro come minimo pari al piede mancino di Recoba. Il signor Franco infatti assiste e non assiste alle partite che va a vedere. Basta una qualsiasi punizione tirata male, una palla persa su rimessa nostra, un fischio incomprensibile, uno stop sbagliato a centrocampo o un passaggio mancato all’ala scattata e ignorata dal regista e il signor Franco se ne va.
Abbandona immancabilmente tutte le partite sul più bello per lasciarle nella sua memoria come dei dipinti incompiuti, per viverle come nessun altro le vive. Partite finite in realtà 3 a 2 con finali rocamboleschi e incandescenti (sì, proprio come quell’Inter-Samp lì, chi c’era non la dimenticherà mai) per lui terminarono con uno striminzito e magari noioso 0-0.

Mentre di regola riesce a controllare il suo impeto di lasciare il suo seggiolino arancione fino al sessantesimo, una volta è perfino capitato che – vedendo riscaldarsi Kily Gonzalez con i titolari- se ne andò subito, prima dell’inizio: non era possibile che l’allenatore avesse schierato quell’ala da quattro soldi! E per coerenza con la sua disapprovazione, abbandonò lo stadio e se ne tornò sulla corriera ad aspettare gli altri.
Solo durante il viaggio di rientro qualcuno trovò il coraggio di dirgli che quella domenica in realtà Kily non aveva giocato nemmeno un minuto.
Di certo di questo mezzo secolo, pur essendo sempre presente, non ha visto la metà dei gol che ha visto il secondo anello di San Siro. E per noi, abbonati seduti intorno a lui (settore 265, fila 6 posto 23 io, lui la fila sotto), diventava quasi più divertente pronosticare l’attimo in cui si sarebbe alzato e andato, piuttosto che il prossimo avvenimento in campo.

Ho sempre pensato che l’irrimediabilità di quell’abbandono fosse uno strano modo scaramantico o piuttosto un’artistica forma di ribellione. Una personalissima protesta per palesare la propria disapprovazione a eventi che senza il suo gesto sarebbero rimasti inosservati e dimenticati all’istante.

Io lo vivevo come un abbandono, una voglia di sottrarsi indebitamente a quel rito del soffrire insieme. Lui invece raccontava che il suo cardiologo gli avesse suggerito di evitare patemi d’animo inutili. Diciamo che non gli abbiamo mai creduto per davvero.
Ma a dispetto di tutte queste ipotetiche spiegazioni fu solo anni dopo che compresi la vera ragione del suo comportamento: io una sola volta in tutti quelli anni avevo lasciato lo stadio prima del fischio finale (per protesta al rigore inventato su Camoranesi al 90′, ne avevamo viste troppe).

Ero uscito nero dalla rabbia e camminavo spedito con alle spalle la Nord. E dietro di me in mezzo a quel silenzio esplose lo stadio. Aveva pareggiato Toldo o così ci piace ricordarlo.
Un boato primordiale, il più bel suono mai sentito. Da brividi. E io che saltavo impazzito in mezzo a quel piazzale deserto. Per me la gioia è quella cosa lì.
Oggi il signor Franco ha cambiato posto e – non lo nego – quel compagno di mille sofferenze e gioie domenicali e quel suo rituale mi mancano.

Ma quando giungono gli ultimi dieci minuti mi piace sempre immaginarmelo lì, solo ai bordi dell’immenso piazzale di San Siro che sta abbandonando lentamente.
E lo stadio che ancora una volta esplode di gioia dietro di lui che senza girarsi ride come un bambino ride in faccia alle avversità della vita.


Questo post nasce in seguito a questo di Nicolino Berti, se vuoi raccontarci qualcosa anche tu scrivici qui!

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