Bauscia Cafè

Se no che gente saremmo

Gianfelice Facchetti, Longanesi, 2011
“Sfugge alla mia comprensione perché uno debba prendersi la briga di ricordare senza sentimenti, quasi per dovere, a fatica, sbadatamente. La memoria andrebbe esercitata con più attenzione, come un pezzo di corpo, come un organo che potrebbe ammalarsi con troppa facilità”: Gianfelice lo scrive a proposito di certe commemorazioni, inaugurazioni, celebrazioni che diventano imbarazzanti, quando la memoria degrada in retorica.
Facchetti
Il racconto comincia con il Liverpool, e il leggendario gol del 3-0 nella semifinale di ritorno di Coppa dei Campioni, la sera del 12 maggio 1965. Un altro 12 maggio, quello del 2006, arriva la telefonata del padre, trattenuto in ospedale per dei controlli… La malattia si rivela, procede, risulta incurabile. Padre e figlio vedono insieme Italia-Germania 4-3 e la finale con Brasile, che Giacinto preferisce interrompere dopo il gol del 2-1 segnato da Gerson. Nella malattia, “la lotta è impari. Non c’è nessun eroismo a vincere il cancro, nessuna colpa a perdere”. In ospedale, l’ultima partita vista insieme: la Supercoppa della rimonta da 0-3 a 4-3 dell’Inter sulla Roma; il mattino dopo, la visita di Materazzi con la Coppa.
Giacinto muore il 4 settembre 2006.
La struttura del libro è a brevi capitoli autoconclusivi. Ricordi che non seguono un ordine cronologico, piuttosto associazioni sentimentali. Come quella volta in cui Facchetti, che non aveva condiviso la scelta del figlio di fare un lavoro qualunque, ordinò un caffè nel bar milanese in cui Gianfelice lavorava – aveva sempre detto di essere solo omonimo del campione – e disse a tutti che quello era suo figlio.
Nonno Felice era ferroviere, lavorava alla stazione di Treviglio. Diceva al figlio che era troppo molle nei contrasti, ma forse era colpa sua, gli aveva dato un nome gentile. Espulso solo una volta, per aver applaudito l’arbitro, dopo ognuno dei settantacinque gol: “mio padre esultava sempre sorridendo e saltando con le braccia tese verso le nuvole”.
L’autore riprende alcuni passaggi da un libro introvabile, “La rabbia del gol”, che il padre pubblicò nel 1970. Fra ricordi personali e altri tramandati dal padre, si spiega l’origine del titolo, ripreso da “Azzurro tenebra”: una frase di “Giacinto Magno” rivolta alla moglie Giovanna e al narratore “Arp”, scelto come padrino del primo figlio maschio, Gianfelice, appunto.
Poche pagine sono riservate a Calciopoli, a partire dalla brutta esperienza della testimonianza al processo di Napoli, dove gli appunti del padre vengono scandalosamente (l’avverbio è mio) definiti “di scarso interesse probatorio”.
Di maggiore intensità le pagine più intime, dedicate al non sempre facile rapporto fra padre e figlio. Nessuna idealizzazione, anzi: incomprensioni, dissidi, aspettative deluse, la difficoltà a conoscersi davvero, l’università (Filosofia) abbandonata e poi ripresa, l’abbandono del calcio (il ragazzo era portiere) e la scelta del teatro: “alla fine non sapevo se facessi le cose per reazione verso di lui o per altro”.
Gianfelice ha saputo trovare le parole giuste per esprimere “la fortuna del vivere dentro la storia e ai margini di un nome che resterà leggenda per le emozioni autentiche che ha regalato”.

Rudi

Rudi Ghedini, bolognese di provincia, interista dal gol sotto la pioggia di Jair al Benfica, di sinistra fin quando mi è parso ce ne fosse una.

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