Bauscia Cafè

Un buon allenatore, un'ottima scelta

Roberto Mancini non è un grande allenatore. Non ancora, almeno. Molto mediatico, molto -moltissimo- sopravvalutato grazie ai risultati ottenuti: ha portato alla vittoria due squadre clamorosamente costruite per vincere come l’Inter di Ibrahimovic e il City, quel City.
Roberto Mancini non è neanche quel grande cuore nerazzurro che a tanti oggi fa comodo dipingere. E’ uno di quelli che per professionalità e stile diventano i primi tifosi della squadra che allenano, mettendoci innanzitutto il cuore, la passione, la rabbia e la voglia di vincere. Ma un tifoso interista non avrebbe definito l’Inter “una 500” ai tempi del City e, soprattutto, non avrebbe costellato di “non ricordo” una testimonianza al processo di Napoli a causa di una carriera da difendere. Tutto più che legittimo e giustificabile, sia chiaro, ma chiamiamo Roberto Mancini per quello che è e facciamogli onore in questo modo, senza prenderci in giro: un professionista, non un tifoso.
Un grande professionista, uno che da giovane -da allenatore- prometteva benissimo con gli ottimi risultati conquistati sulle panchine di Fiorentina e Lazio e che ha avuto la “colpa” di ritrovarsi catapultato in due grandissime squadre obbligate a vincere, in cui le vittorie da sole quasi non bastavano. E infatti il Mancio vince (e chi non ci è riuscito con Ibrahimovic? A parte Allegri e la Juventus, intendo) ma gli esteti li convince poco: un’Inter troppo “palla a Ibra e ci pensa lui” prima, un City senza una grande idea di gioco e clamorosamente fallimentare in Champions poi. Chiamato a un Galatasaray in cerca di miracoli, anche lì riesce a metà: la Coppa di Turchia (tanto per non perdere le buone abitudini) e ottimi risultati in Champions, ma niente campionato. Questo è quello che chiunque direbbe di Mancini. E però.
Mancio
E però forse liquidare quella Inter, la sua Inter, come “palla a Ibra e ci pensa lui” è un po’ riduttivo. Innanzitutto perché lo Scudetto del 2008 (il terzo, sì) lo vinse per metà stagione senza Ibrahimovic -perso tra mal di pancia e inverosimili buchi nei tendini- e senza mezza rosa, con una squadra ormai talmente sicura dei suoi mezzi e del proprio gioco che riusciva a far sembrare calciatori di altissimo livello persino i vari Pelé, Maniche, Jimenez e Solari. Soprattutto, però, perché quell’Inter, la sua Inter, tornò a vincere ben prima di Calciopoli e il Mancio riuscì dove tantissimi avevano fallito: ridare una mentalità vincente a questa squadra. La Coppa Italia alzata a Milano nel 2005 segna l’inizio del più grande ciclo della storia della nostra squadra e, cosa che nessuno sottolinea mai abbastanza, è il primo trofeo alzato dall’Inter in 7 anni, dalla Coppa UEFA del 1998. Da lì in poi non ci si ferma più, mettendo le cose in chiaro già andandosi a prendere la Supercoppa successiva a Torino quando il sistema-Moggi era all’apice della sua forza e Veron mise a tacere mezza Italia una volta per sempre.
E’ questo che fa Mancini all’Inter: insegna a vincere a una squadra che non sapeva più farlo, dà sicurezza, forza, orgoglio. Tantissimo orgoglio. Ci si mette in fila ad applaudire i cugini campioni del mondo prima del derby e poi li si tritura sul campo, si guarda in faccia con la testa altissima qualsiasi avversario, qualsiasi situazione. E’ con Roberto Mancini che il popolo nerazzurro si riscopre bauscia dopo troppo tempo.
Lavora sui giovani in quegli anni Mancini, non ha paura di lanciarne tanti -su tutti Balotelli, in quelli che restano ancora oggi i migliori momenti della sua carriera- e non ha paura di sbilanciarsi su di loro (“Kovacic della Dinamo Zagabria è nato per giocare a calcio, diventerà un campione”: era il 3 gennaio 2012). Quanto è importante questo in una società come l’Inter attuale, in un momento storico come quello che stiamo vivendo?
Già, la società. La società che per l’ennesima volta mette a tacere tutti i giornalisti e i “bene informati” spiazzandoli con una scelta che nessuno si aspettava. La scelta migliore, senza ombra di dubbio. Io stesso avevo pronto un post per oggi dal titolo “Mazzarri sì, Mazzarri no, Mazzarri un caz” in cui mi sbilanciavo addirittura a favore di una riconferma di Mazzarri (IO!!) perché, semplicemente, non vedevo alternative credibili che ci garantissero di non sbracare: traghettatori per 6 mesi? Vecchi, Zenga, magari addirittura Leonardo? E a che scopo, con quali garanzie, con che speranze? L’unica, mi dicevo, sarebbe stata prendere oggi l’allenatore del futuro, anticipare di 6 mesi il progetto che si vuole e si deve mettere in campo dalla stagione prossima. Ma chi accetterebbe una cosa del genere, quanto costerebbe. E, soprattutto, l’Inter ha davvero la lungimiranza e il coraggio per fare una scelta simile?
Sì dio mio, sì: ce l’ha. E questa è la più bella conferma di quanto sia cambiata questa società, della direzione che stiamo prendendo. Del fatto che non abbiamo più paura di rischiare, che non abbiamo più paura di tornare a essere grandi, che la smettiamo di vivere di espedienti per limitare i danni.
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Roberto Mancini è una scelta di altissimo livello, il più alto a cui potesse puntare l’Inter in questo momento. Un grande allenatore che deve tornare grande, in una grande squadra che deve tornare grande. Con una società che grande si è già dimostrata e che ha lanciato un messaggio violentissimo con questa scelta: noi non ci arrendiamo, non siamo disposti a sacrificare di un centimetro il blasone dell’Inter sull’altare dei “tagli”, perché una grande società diventa tale innanzitutto sul campo, non solo nei bilanci.
Via Mazzarri tutti immaginavano una scelta ponte, un allenatore che si accontentasse di poco. “C’è il fair play finanziario”, dicevano, “ci sono i conti in rosso”, dicevano, “l’Inter non può permettersi un big”, dicevano. Certo erano gli stessi che solo mezz’ora prima dell’esonero cianciavano ancora di “ciclo decisivo di tre partite per Mazzarri” (tutti, nessuno escluso) e questo la dice lunga sul polso della situazione che hanno certi presunti insider. La realtà dice il contrario. La realtà dice che l’Inter sceglie un allenatore top da affiancare ai top manager già inseriti in società e che sia in grado di guidare una serie di giovani wannabe top player sui quali la società punta forte: Juan Jesus, Kovacic e Icardi su tutti, il resto sarà una squadra da plasmare. Una difesa a 4 con due grossi buchi senza soluzione sugli esterni, un centrocampo a 4 probabilmente a rombo. Cose semplici, conosciute. Non spettacolari ma terribilmente efficaci.
E la miglior garanzia delle intenzioni della società è proprio il sì ricevuto da Roberto Mancini: che mai -per la sua carriera, per il suo futuro- avrebbe accettato un progetto teso a vivacchiare, che si presenta in conferenza stampa e ripete un numero inverosimile di volte la parola “vincere”. Che oltre all’ovvio “mi piace il progetto che mi hanno proposto” si lascia scappare un bel più eloquente “insegnare ai giovani a vincere, crescere insieme a loro e costruire su di loro una grande squadra è stata una delle cose più importanti per convincermi”. Vuole vincere il mister, vuole dare l’accelerazione definitiva alla sua carriera e vuole affermarsi per quello che ritiene di essere: un allenatore vincente in grado di insegnare calcio, plasmare dei giocatori tutt’altro che fatti e finiti e impostare una squadra vincente partendo da zero o quasi. Riteneva di averlo già dimostrato all’Inter dieci anni fa, sa che questa sarebbe la prova definitiva.
La prima Inter di Mancini era un’Inter incapace di vincere ma troppo forte per perdere, l’Inter della pareggite. Questa è una squadra molto molto diversa negli interpreti e nelle prospettive. Forse, paradossalmente, un punto di partenza migliore per un progetto a medio termine. Senza l’angoscia di vincere subito: oggi, a differenza della prima volta, nessuno si sognerebbe di chiederglielo.
Ho pianto quella sera di marzo in cui ci hai salutato, Mancio, tifoso deluso da un incantesimo che -pensavo- si stava spezzando. Piango oggi che sei tornato, perché finalmente finisce un incubo.
Sbagliavo clamorosamente all’epoca, spero davvero di non sbagliare ora.
Bentornato a casa, Roberto.
Raccogliamo i cocci e rimettiamoli insieme.

Nk³

Il calcio è uno sport stupido, l’Inter è l’unico motivo per seguirlo. Fermamente convinto che mai nessun uomo abbia giocato a calcio come Ronaldo (ma anche Dalmat non scherzava). Vedovo di Ibrahimovic, ma con un Mourinho in panchina persino i Pandev e gli Sneijder possono sembrare campioni. Dategli un mojito e vi solleverà il mondo.

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