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Eusébio: il Dio del popolo

Per ricordare un grande campione recentemente scomparso, traduciamo e pubblichiamo questo pezzo di António-Pedro Vasconcelos pubblicato sul quotidiano portoghese Público (versione originale). Per omaggiare Eusébio e per capirne un po’ di più.

Eusébio è stata la prima persona a impersonificare una tendenza moderna in Portogallo: essere nero o bianco non importa. Il Portogallo ha idolatrato un mozambicano, mentre ammazzava i neri nelle colonie.
La mia generazione ama e rispetta Eusébio senza aver mai visto quello che ha fatto. Senza aver mai esultato con le sue giocate e i suoi goal in diretta. Amare Eusébio fa parte del pacchetto di questa cosa chiamata “essere portoghese”. Questo vuol dire essere un mito.
Per questo state tranquilli. I miti non muoiono.

Rafaela Mota Lemos, 30 anni

Non c’è portoghese che non ricordi la scena in cui António Silva, l’Anastácio della commedia O Leão da Estrela raccontava a Filipinho (interpretato da Óscar Acúrcio) come immaginava sarebbe stata la partita fra la sua squadra, lo Sporting, e il Porto. Anástacio, esemplare tipico della classe media, aveva usato tutti gli stratagemmi a sua disposizione per riuscire a trovare un biglietto e un passaggio per andare a Porto a vedere la partita. Seduto accanto a Filipinho, sul divano della sala, un Anastácio eccitato in attesa della partita, si alza, gironzola per la sala e racconta di una giocata immaginaria, à la “cinque violini”. “Già me lo vedo!” dice, “Canário passa a Travassos, la palla va a Vasques, poi Albano e Jesus Correia che la mette in mezzo per Peyroteo, per finire in fondo alla porta di Barrigana!” Nell’entusiasmo del goal, Anastácio dà un calcio al tavolo, facendolo girare e facendo cadere il posacenere e i ninnoli che decoravano quello scenario piccolo-borghese.
Il film del 1947 diretto da Arthur Duarte, faceva leva sull’enorme successo dello Sporting di quegli anni, guidato da un fantastico quintetto di attaccanti che Tavares da Silva, il grande giornalista e commissario tecnico della Nazionale, aveva battezzato “i cinque violini”.
E quando Anastácio, grazie ai suoi proverbiali trucchetti, le sue menzogne e i suoi inganni, riesce finalmente ad andare a Porto e si siede allo stadio, assiste a una partita emozionante, sigillata da un pareggio (risultato strategico per non perdere spettatori, poiché non avrebbe offeso nessuna squadra). Della partita il film mostra poche immagini di gioco, le quali a loro volta sono interrotte dalle reazioni del pubblico. I goal, di Peyroteo (Sporting) e di Araújo (Porto), i due attaccanti più prolifici e i grandi idoli dei tifosi delle due squadre, non si sa se perché non c’erano mai stati o non furono filmati, non appaiono nella pellicola: si vede appena la palla che entra in porta, in un abile e fin troppo ovvio montaggio. Il film mostra anche Pedro Moutinho che fa la cronaca della partita, un’immagine ricorrente durante le scene allo stadio, un altro stratagemma per evitare le scene di gioco.
Specchio di quello che fu il Portogallo durante il salazarismo, insieme alle altre pellicole di Arthur Duarte, e come prima di esse le commedie di Cottinelli Telmo e dei fratelli Ribeiro, questa “commedia alla portoghese” ci mostra il paese di quel periodo. Le partite di calcio (uno sport rozzo, odiato dal Regime, che in esso vedeva un ignobile e pericoloso spettacolo di massa e un’offesa all’educazione fisica, invece consigliata) vivevano delle sole cronache via radio, strumento che nel frattempo stava diventando popolare, come mostrato in un altro film di Arthur Duarte, O Costa do Castelo, nel quale António Silva, sempre lui, quattro anni prima aveva regalato a Luisinha un telefono, una novità che aveva lasciato a bocca aperta la famiglia dei proprietari di casa.

La scatola che ha cambiato il calcio

Ci sarebbero voluti altri tredici anni perché la televisione sostituisse la radio e si imponesse a poco a poco in tutte le case, e ci vollero ancora alcuni anni perché le partite di calcio fossero regolarmente trasmesse in tv. È in questo periodo, all’inizio degli anni 60, che si impongono Eusébio e il Benfica dei sogni, interrompendo l’egemonia dello Sporting e dei “cinque violini”, già traballante da quando uno scontento Peyroteo decise di ritirarsi nel 1949 a 31 anni. Peyroteo fu quello che si dice “una vera leggenda”, con una media di goal incredibile di 1,6 goal a partita (media che costituisce ancora oggi un record mondiale). Ciononostante non esiste un unico suo goal filmato, l’unica giocata che ci fa immaginare come fosse questo centravanti (per chi non l’abbia mai visto giocare) è un lancio di pochi secondi, in cui resiste alla carica di un avversario e, in area, passa la palla indietro, probabilmente ad Albano. Le immagini si fermano qui.
La reputazione di grandi giocatori, oltre al freddo linguaggio dei numeri, viveva allora della memoria dei pochi fortunati che erano stati allo stadio e avevano visto le partite che li avevano consacrati idoli nell’immaginario popolare. Come accadeva per la boxe, l’opera, l’atletica e le corride, prima della televisione e soprattutto prima dell’avvento della diretta, il ricordo delle prestazioni di questi idoli era riservato ai privilegiati che avevano visto lo spettacolo dal vivo e che, successivamente, con più o meno accuratezza o immaginazione, riuscivano a trasmettere o esagerare il fascino che quei momenti storici avevano rappresentato. Spesso in racconti molto simili alla giocata immaginata da Anastácio nel film.
Eusébio, che fu incoronato “Rei” durante la Coppa del Mondo del 1966 in Inghilterra, è il primo grande giocatore portoghese dell’era della televisione globale. Quell’anno i lusitani poterono vedere per la prima volta nella loro vita le imprese della Nazionale in diretta, soffrire proprio durante le partite ed emozionarsi per le sue vittorie, ammirare i propri eroi e, in un periodo di oppressione, guerra, emigrazione e miseria, riscattare in questo modo il disonore e l’umiliazione di essere il paese più arretrato d’Europa.

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Portogallo – Corea del Nord, 1966
Il Mondiale del ‘66 fu il primo ad essere trasmesso in diretta in tutta Europa, i brasiliani avrebbero conosciuto questo privilegio solo con la successiva Coppa del Mondo in Messico nel 1970, vinta proprio dal Brasile. In bianco e nero, senza tutti i mezzi a disposizione delle trasmissioni calcistiche di oggi (immagini a colori, schermi a 16/9, la prossimità al terreno di gioco, l’HD che crea un’illusione di realtà, i replay, il rallentatore, le statistiche, più di trenta telecamere, le linee che permettono di analizzare gli errori degli arbitri, ecc) le squadre di Eusébio, sia la Nazionale che il Benfica, furono le prime squadre portoghesi a beneficiare di una proiezione universale attraverso la televisione, quella scatola arrivata a cambiare completamente la precezione del calcio, aumentarne la popolarità, muovere milioni e permettere di conoscere da vicino gli “dei del calcio”.
Delle icone indiscutibili del calcio – Di Stefano, Puskas, Pelé, Eusébio, Maradona, lasciando fuori geni come Mazzola, Garrincha, Koksis, Kubala, Kopa, Best, Cruyf, Platini, Bettega, Gullit, Zidane e molti altri – solo la carriera di Maradona, 20 anni meno di Eusébio e 30 di Pelé, è stata coperta dalla televisione per intero. Pelé ed Eusébio sono giocatori di transizione, ci sono molti filmati, ma solo metà della loro carriera è stata trasmessa in diretta sul piccolo schermo. Dei molti goal goal e delle giocate di Di Stefano e Puskas, al contrario di quanto successo a Jesus Correia, Vasques, Peyroteo, Travassos e Albano, ci sono registrazioni che possono aiutarci a capire le ragioni del loro mito.

L’età dell’innocenza

Che conclusione trarre da quanto detto finora? Che televisione e il video, soprattutto a seguito della rivoluzione digitale, hanno cambiato il mondo del calcio, dandogli una dimensione planetaria, cambiando lo status dei giocatori e l’analisi delle prestazioni. Per non parlare poi della rivoluzione portata nei metodi di allenamento e nella possibilità di analizzare nei minimi particolari gli schemi di gioco degli avversari.
Il rapporto di Eusébio con le telecamere era però innocente, una novità con la quale non si trovava a suo agio, ma soprattutto della quale non conosceva l’impatto. Maradona, oltre ad essere un giocatore geniale, era abilissimo a gestire il rapporto con le telecamere. Basti ricordare l’ultima sua immagine del Mondiale negli Stati Uniti, con la quale entra nella storia del calcio, quando dopo aver segnato il terzo goal argentino alla Grecia, corre verso la telecamera più vicina e grida in primo piano la sua rivincita contro Havelange e quelli che lo volevano finito. Ma al contrario del genio argentino, Eusébio (il quale grazie alle telecamere del ‘66, diventa conosciuto nel mondo intero) non sapeva nemmeno di essere filmato. Il suo gioco, il suo stile, i suoi movimenti non furono condizionati dalla percezione che c’erano le telecamere, non furono mai gesti televisivi. Quando, dopo aver segnato il primo dei quattro goal alla Corea del Nord, va a prendersi la palla in fondo alla rete per rimetterla rapidamente a centro campo, quando si complimenta con il portiere avversario che gli para un goal già fatto, o quando piange aggrappato alla maglia del Portogallo, Eusébio nemmeno sa, in nessun momento, che lo stanno riprendendo.

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Eusébio in lacrime dopo la sconfitta del Portogallo con l’Inghilterra, 1966
È questo piacere quasi infantile per il calcio che si è perso al giorno d’oggi, il piacere semplice di giocare con la palla e vincere, questa purezza, che si confonde con l’innocenza che le telecamere riescono ora a riprendere. La stessa innocenza che avevano Di Stefano, Puskas e George Best, ma che in Eusébio rivelava un nuovo stile di giocatore, oltre a un essere umano eccezionale. Quando oggi vediamo le immagini delle giocate e dei goal di Di Stefano o di Puskas, di Garrincha o di Best, vediamo geni del dribbling, dell’opportunismo, della lettura della partita, del controllo della palla, dei calci piazzati, tutte cose che ci lasciano incantati e in estasi. Ma, sebbene rapidi nell’esecuzione, erano geni di un calcio più lento e sapiente, con difese più permissive, un calcio plasmato ad immagine del temperamento sudamericano – e no, non è un caso che tra i cinque dei del calcio moderno ci siano due argentini e un brasiliano.
La novità di Eusébio era, al contrario, la potenza dello scatto, il cambio brusco di velocità, la finta in corsa, il tiro forte e preciso con tutto il corpo lanciato in avanti, come una “pantera nera”. Per gli avversari, Eusébio era il pericolo a piede libero.
Fu questa scoperta che incantò i portoghesi, ma anche la rivelazione che Eusébio e i suoi compagni erano stati visti e ammirati in tutto il mondo, in diretta o in differita, creando una versione lusinghiera del Portogallo, che lo rendeva più grandi e lo riscattava dall’immagine di paese miserabile, arretrato e oppresso, a dispetto delle democrazie europee del dopoguerra.
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Eusébio vs. Yashin, 1966

Il villaggio globale

Questa fama data dal Mondiale in Inghilterra, dalla vittoria di Amsterdam e dal Pallone d’Oro di France-Footbal nel 1965, è una novità assuluta che apre il cammino all’età dei media – ciò che MacLuhan aveva previsto come il futuro “villaggio globale”. Da un momento all’altro, il bambino povero di Lourenço Marques si trasforma in un’icona mondiale e la sua immagine viene proiettata dal villaggio di Mafalala al pianeta Terra.

Il Regime aveva sempre considerato il calcio con disprezzo e sospetto, vedeva in una squadra popolare come il Benfica una minaccia. Negli anni aveva proibito l’inno chiamato Avante (Avante! è il titolo della pubblicazione ufficiale del Partito Comunista Portoghese 1931, NdT), aveva proibito di chiamare la squadra “i rossi”, il centrocampista Coluna fu chiamato a deporre dalla PIDE (.a polizia politica del regime di Salazar, NdT) col sospetto di intrattenere rapporti i movimenti indipendentisti del Mozambico. Ora però, questa proiezione internazionale del calcio e, per giunta, di un nero, era vista come un pericolo di strumentalizzazione politica da parte dei movimenti di liberazione, ma allo stesso tempo come un’opportunità. Al di là della retorica, i neri erano per il regime degli esseri inferiori che dovevano essere colonizzati, ma ora quello che vedeva il pubblico era che in campo Eusébio, così come il gigante Coluna, era uguale ai suoi colleghi bianchi. Uguale a Germano, José Augusto e Simões, gli altri campioni offuscati dalla “pantera nera”, e oltretutto, era migliore di tutti loro. Un nero era diventato l’idolo delle masse, un eroe nazionale, un esempio di eccellenza.

Dopo aver assistito con preoccupazione alle manifestazioni in aeroporto per l’arrivo dei Campioni d’Europa, i consiglieri del regime vicini al dittatore, si accorsero che invece avrebbero potuto sfruttare a loro favore i successi della Nazionale: “Guardate che paese multirazziale, che non discrimina i neri, che li integra e li applaude per i loro successi!”. In un periodo in cui la PIDE e la Censura imponevano il silenzio alle opposizioni, Eusébio fu obbligato a svolgere il servizio militare, come tutti gli altri, ma gli fu risparmiata la chiamata in guerra – si noti l’ipocrisia – creando solo per lui la funzione militare di “autista di carrozza a cavallo”, cosa che ovviamente non esisteva in teatro di guerra. In questo modo, il regime si assicurò che non fosse assegnato a missioni in Africa e potesse rimanere a svolgere servizio nella Regione Militare di Lisbona.

Oggi, nell’era della comunicazione globale, il calcio attira somme astronomiche di denaro, i giocatori di talento (ed Eusébio aveva più che talento) sono milionari e fanno sognare i giovani delle periferie di tutte le grandi metropoli del pianeta. E proprio come le star del cinema, e ancora prima della televisione, i giocatori erano stelle che brillavano in un cielo inaccessibile, lontano dal contatto coi mortali e protetti dall’intrusione dei media. Oggi invece si esibiscono a favore dei paparazzi, i giocatori dell’era televisiva vogliono fare invidia per le macchine che posseggono e per le modelle che collezionano, vogliono esibire le loro ville da sogno e le isole private nelle quali vivono ben al di sopra delle normali necessità dei cittadini comuni.

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Eusébio in Hotel a Rotterdam nel 1963

Eusébio, il primo giocatore portoghese a beneficiare dello statuto di vedetta del “villaggio globale”, non ha mai alterato il suo comportamento, né la sua maniera di giocare, né la sua maniera di essere. Modesto, impossibilitato dal regime a lasciare il paese per una squadra estera nella quale avrebbe potuto fare fortuna, rimase com’era: legato a una squadra popolare, che lo aiutò a essere uomo, a conoscere il successo da giocatore e che lo fece continuare ad essere ammirato anche dopo l’addio ai campi. Fece una vita normale, semplice e modesta, un esempio di sportività, tutto quello che era stato da giocatore: un dio del popolo, un re plebeo, senza vanità, né ostentazione.

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